"Così il giudice Esposito mi chiamò per l'intervista subito dopo la sentenza"

Manzo, allora cronista del "Mattino": "Fu lui ad anticipare le motivazioni della Cassazione"

"Così il giudice Esposito mi chiamò per l'intervista subito dopo la sentenza"

È stato il primo inciampo di quella sentenza che in questi giorni è tornata a far discutere. L'intervista concessa dal giudice Antonio Esposito ad Antonio Manzo, allora giornalista del Mattino, nella quale Esposito si dilungava, pochi giorni dopo il processo, ad anticipare quelle che sarebbero state le motivazioni della sentenza. Esposito provò a smentire tutto, parlò di una chiacchierata con un amico, disse che il contenuto dell'intervista non rispecchiava fedelmente quanto si erano detto, denunciò omissioni e aggiunte, in particolare, appunto, l'aggiunta della domanda sul fatto che «Berlusconi non poteva non sapere» (il titolo dell'intervista era appunto «Berlusconi condannato perché sapeva»). Portò quotidiano ed (ex) amico cronista in tribunale, chiese milioni di euro di danni. Ma fu sconfitto. Perché, tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, sbugiardò Esposito, confermando che né il Mattino né, tantomeno, Manzo, avevano diffamato il giudice che ha condannato Berlusconi. Fedele l'intervista a quanto giornalista e magistrato si erano detti al telefono, corretto il lavoro di editing, obiezioni di Esposito, insomma, prive di fondamento.

Oggi Manzo è direttore del quotidiano La Città di Salerno, ma quei giorni caldissimi dello scoop dell'estate 2013 li ricorda bene. E anche se preferisce sorvolare sugli eventi degli ultimi giorni, non nasconde la sua soddisfazione per la conclusione di quella querelle con Esposito. Che, rivela, di fatto «bussò» per l'intervista a sentenza ancora calda.

«Mi chiamò forse mezz'ora dopo la lettura della sentenza», ricorda oggi Manzo, «avevo appena visto in tv la scena, saranno state le 18.30, le 19 al massimo. E fui così stupito, vedendo il suo nome apparire sullo schermo del mio cellulare, che mi alzai dal tavolo e uscii dalla mia stanza del settore Interni-Esteri per infilarmi nella stanza di fronte, che era lo studio di Alessandro Barbano, all'epoca direttore del Mattino». Una chiamata irrituale, anche se Manzo conferma che lui ed Esposito erano «conoscenti da anni, dai tempi in cui lui era pretore a Sapri». Comunque, continua Manzo, «entro e trovo Barbano in compagnia di Massimo Garzilli, allora direttore amministrativo. Barbano vede il nome del giudice che quel giorno era su tutte le tv del mondo e mi dice di rispondere. Lo faccio, e provo già a impostare qualche domanda racconta Manzo ma lui mi disse che in quel momento non voleva parlare, così gli dico ok, però facciamo patto e promessa che l'intervista la farai con me». Promessa, come è noto, mantenuta di lì a poco.

Certo, che un giudice senta l'esigenza, nemmeno un'ora dopo aver condannato qualcuno, di chiamare un giornalista già risulta stravagante. E Manzo, infatti, conferma che non aveva molti dubbi sull'intenzione poi confermata di Esposito di «vuotare il sacco» e raccontare quella storica decisione. «Ovviamente continua Manzo vista la delicatezza della materia e per mia abitudine, registrai la conversazione. Il nastro dura 34 minuti, l'originale è nella cassaforte del Mattino, io ne ho una copia». Alla domanda sui contenuti non finiti nell'intervista ma rimasti sul nastro, Manzo fa spallucce. «Sono stato un signore, e vorrei continuare a esserlo. Non ci sono particolari divagazioni di Esposito. Quello che conta è che c'è tutto quello che ho scritto».

Manzo, all'epoca, riserva al giudice un ulteriore riguardo. D'accordo con il direttore, manda a Esposito una copia dell'intervista prima di pubblicarla. E il giudice «non mosse una sola obiezione. Mancava solo la domanda poi aggiunta in fase di editing per spezzare una risposta lunghissima e per dare un senso logico a quella anticipazione delle motivazioni, al non poteva non sapere». Mancava la domanda, ma non mancava la risposta. Il mattino dopo la pubblicazione, alle 9, scoppia il finimondo. «Mi chiama Esposito», ricorda Manzo, «mi travolge, protesta, poi chiude il telefono e smentisce l'intervista, dice che non è fedele. Io all'epoca, a parte un'intervista a Tempi, solo per chiarire di aver fatto bene il mio mestiere e null'altro, ho scelto non a caso di osservare un silenzio monastico.

E ho fatto bene conclude Manzo perché quattro anni dopo, ho avuto soddisfazione grazie a una sentenza che ha fatto scuola». E che ha assolto il cronista. Inchiodando a quelle dichiarazioni Esposito. Sconfitto due volte: sull'inopportunità di quelle dichiarazioni, ma anche sul tentativo di sbarazzarsi della loro paternità.

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