Sul Teheran Times leggo: «Se gli attacchi genocidi contro i civili a Gaza non cesseranno, la regione si muoverà verso una risoluzione grande e decisiva». Così ha commentato il ministro degli Esteri Amir Abdollahian, incontrando il suo omologo turco Hakan Fidan ad Ankara, nella nuova Turchia islamista.
Pudicamente parla di «regione» protagonista, invece di nominare i suoi capi a Teheran, e aggiunge uno scoop interno (di dubbia veridicità) per pubblicizzare la presenza dell'Iran a Gaza: «Finora 50 israeliani che erano tenuti prigionieri da Hamas sono morti a causa dei bombardamenti».
Con i guerriglieri di Hezbollah (per nulla scoraggiati dalla pronta e sanguinosa rappresaglia) che hanno già lanciato missili anticarro russi di alta qualità Kornet verso Israele per mettere fuori uso le postazioni di osservazione, e un missile balistico iraniano in piena regola lanciato dagli Huthi iraniani dello Yemen e intercettato sopra l'atmosfera dal sistema di difesa israeliano Arrow, manca solo l'intervento delle milizie che Teheran controlla in Siria e in Irak.
Sembra ieri (ma era un mese fa) che il consigliere per la sicurezza nazionale dell'amministrazione Biden e guru della politica estera del presidente, Jake Sullivan, forte di un'impressionante formazione giuridica non contaminata da esperienze diplomatiche o militari, lavorava a tempo pieno per migliorare ulteriormente le relazioni con l'Iran, dopo aver ottenuto un brillante successo grazie al rilascio di alcuni cittadini con doppia cittadinanza prigionieri in Iran in cambio di sei miliardi di dollari di fondi congelati (gli americani che preferiscono vivere in Iran non dovrebbero più essere «gravati» dalla cittadinanza statunitense se si rifiutano di tornare).
Non sono del tutto sicuro che, nonostante il fallimento dell'ennesimo tentativo degli Stati Uniti di fare pace con gli ayatollah iraniani arrabbiati (il 37essimo da quando sono saliti al potere nel 1979), l'amministrazione Biden abbia assorbito le implicazioni dell'attuale posizione di Teheran, mirabilmente riassunta dalla dichiarazione di Amir Abdollahian: l'Iran stesso è talmente sicuro da poter sguinzagliare i suoi «proxy» (le milizie dislocate in tutto il Medioriente che fanno capo al regime, ndt) per attaccare a piacimento gli alleati e le truppe statunitensi. Nel caso di Israele, l'alleato minacciato può difendersi, ma la guarnigione curdo-statunitense nel Nord-Est della Siria, i restanti amici degli Usa in Irak e in Kurdistan e - cosa più importante - gli alleati nella penisola arabica, sono tutti sotto tiro. A meno che l'amministrazione Biden non cambi marcia per dissuadere in modo credibile l'Iran, invece di cercare di blandirlo con omaggi e regalini.
Non c'è niente di male nella pratica araba assai diffusa di corruzione e regalie chiamata baksheesh se funziona, ma in questo caso non ha funzionato.
Non è certo una questione di scarsa spina dorsale da parte del presidente. La reazione immediata di Biden all'assalto del 7 ottobre e alla minaccia immediata di Hezbollah di lanciare i suoi 138.258 razzi e missili è stata quella di inviare la «Gerald R. Ford», la portaerei più avanzata della Marina statunitense, insieme a sei navi da guerra con missili guidati nel Mediterraneo orientale, e poi una seconda task force intorno alla portaerei «USS Dwight D. Eisenhower», insieme a cacciabombardieri dell'aeronautica statunitense e a potenti aerei da attacco al suolo inviati alla base aerea di Muwaffaq Salti/Al-Azraq in Giordania.
Il segretario alla Difesa americano - il capo del Pentagono Lloyd Austin, fino a poco tempo fa il massimo generale americano responsabile per il Medioriente - non ha avuto alcuna difficoltà nel tradurre subito in azione gli ordini di Biden.
Marina e aeronautica statunitensi hanno dato prova di sapere ancora molto bene come si spostano rapidamente le forze in tutto il mondo, specialmente nella regione giustamente chiamata Vicino Oriente, su distanze che dal Regno Unito (la base di Lakenheath, a Nord di Cambridge) sono una frazione delle distanze trans-pacifiche.
Diverso il discorso quando si tratta di cambiare marcia in politica estera. Dalla cortese conciliazione con l'aggiunta di regalie, alla ricerca di un modo per dissuadere davvero l'Iran una volta per tutte, nell'attuale squadra di politica estera solo il Segretario di Stato Atony Blinken al Dipartimento di Stato è in sintonia con la determinazione di Biden nell'affermare il potere americano. E sebbene il Dipartimento di Stato abbia la sua quota di sostenitori dell'appeasement con Teheran, obbedirà a Blinken.
Sfortunatamente, questo non è neanche lontanamente sufficiente: gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale e non si può fare nulla a meno che i collaboratori della Casa Bianca non traducano le scelte presidenziali in politiche ben definite con tutti i crismi, compresi i finanziamenti e la raccolta di sostenitori del Congresso.
Il più importante di questi collaboratori, il brillante avvocato Sullivan al Consiglio di Sicurezza Nazionale, e i molti «reduci» di Obama che lavorano per lui e per la Casa Bianca in generale, sono ancora legati alla malcelata avversione dell'ex presidente nei confronti di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele, e alla sua esigenza di scusarsi ancora una volta per le malefatte dell'America in Medioriente. Con l'obiettivo di riconciliarsi finalmente con il Rahbar-e Moazam-e Irân, il leader supremo assoluto, Ali Hosseini Khamenei detto Seyyed (il grande), ora al suo 39esimo anno di potere illimitato.
(1 - continua)
traduzione a cura di Marco Zucchetti
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