Stefano Paglia è il medico che per primo in Occidente ha affrontato il Covid. Responsabile del Pronto soccorso di Lodi e Codogno, ha dormito per 38 giorni in ospedale, ha probabilmente salvato Milano e se c'è una dimensione eroica nella resistenza alla pandemia, si incarna nella sua storia.
Dottor Paglia, Codogno non ha più pazienti Covid, qual è il quadro?
«Rassicurante, l'andamento è simile a quello dell'estate scorsa, ma la speranza è che grazie alle vaccinazioni non ci sarà la ripresa. È anche una ragionevole previsione, la verità la avremo a ottobre».
Conte la definì un eroe.
«È una cosa strana, ma chi ha detto sventurati i Paesi che hanno bisogno di eroi ha detto una verità. Chi fa il proprio dovere a volte viene vestito con quest'abito: gli altri ne hanno bisogno per affrontare meglio ciò che spaventa».
Ha vissuto qualcosa di incredibile.
«Siamo stati catapultati in una situazione inimmaginabile. Sapevamo che una pandemia sarebbe tornata: esiste una ciclicità, ma non potevamo certo sapere che saremmo stati noi a trovarcela faccia a faccia, svegliandoci a Wuhan».
Il riconoscimento che l'ha colpita?
«In Vaticano. Il Papa ci passa in rassegna, saluta tutti uno a uno. Mi presento e mi dice: Che Dio la benedica».
Lei ha fede?
«Non sono un buon cristiano, ma sì».
Cosa ha pensato?
«All'inizio di tutto, quella notte concitata in cui abbiamo chiuso Codogno, troppo piccolo per essere difeso, arroccandoci su Lodi. Al quinto tampone positivo in 12 ore venne fuori che 25 infermieri e 10 medici erano contatti non protetti».
Lei ha avuto paura?
«Io ho dato per scontato per ci avrei lasciato la pelle, e temevo che alcuni dei miei sarebbero morti. Abbiamo avuto molti contagiati ma non è successo. È stato... Siamo stati fortunati».
Stava dicendo un miracolo?
«Non è nostro merito. In altri contesti hanno avuto caduti. Avevamo accettato l'idea che accadesse. Lì dentro vedevamo solo un pezzo di realtà».
Il modello Codogno? La prontezza?
«La prontezza sì. E pure Lodi era una situazione paradossale. Si doveva chiudere anche lì: un gruppo di sanitari avrebbe dovuto mettersi in quarantena, ma se fosse caduta Lodi non ci sarebbe più stato argine. Ci fu un intervento e la deroga. Inviai una mail ai miei per precisare che, se sani, eravamo autorizzati a lavorare. Scrissi proprio: Che Dio vi benedica».
Chiamava i suoi medici «fratelli».
«Quella sera è successo tutto velocemente. Abbiamo evacuato Codogno, testato tutti, bloccato gli accessi. Mi spostai a Lodi per presidiarla con l'unica infermiera. Il 21 è arrivata la prima ondata di pazienti, drammatica. E una direttiva ci imponeva la quarantena, pena reato».
Cosa successe fra voi?
«Tanti operatori si rivolgevano a me come dirigente: Cosa dobbiamo fare?. Bastava una telefonata al medico per ottenere la quarantena come contatti. Non mi sento di dirvi cosa dovete fare - rispondevo - ma cosa farò io. Sono rimasti tutti. Come sarebbe andata se 20 o 30 si fossero segnalati come contatti?».
Sarebbe caduta Milano.
«Sarebbe stata la strage. Come Bergamo, ma con le dimensioni di Milano».
Ha scritto: «La paura ci renderà migliori». Lo siamo?
«Dico cosa è stata per me. Ha messo a nudo molto, ha fatto vedere di quante non-verità era infarcita la nostra esistenza, come la convinzione di essere intoccabili e controllare tutto».
Ha due figlie. La racconterà come una vicenda che l'ha segnata?
«Dobbiamo farci ancora i conti. Mio padre diceva che l'esperienza nasce dalla somma degli errori. Io vedo la tentazione di un colpo di spugna, come se fosse tutto una parentesi da dimenticare. Non penso che sarebbe saggio farlo. Anzi».
Si riposerà?
«Nel 2020 ho accumulato 900 ore di straordinario non retribuito. Dopo Ferragosto, vediamo».
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