La metamorfosi è lenta e lunga. L'Europa in qualche modo esiste, solo che ognuno continua a vederla a modo suo. È per questo che quando i ventisette Stati nazionali raggiungono uno straccio di accordo il primo sentimento resta la sorpresa. Il Patto di stabilità disegna le regole economiche per stare nel club. Se non le rispetti ti multano e se perseveri rischi il commissariamento. È toccato alla Grecia e non è stata una passeggiata. I greci alla fine sono sopravvissuti, mangiando sale. Il vecchio Patto apparteneva a un mondo che forse non è mai esistito. La regola aurea era l'austerità, sotto il segno dell'etica tedesca, con l'idea rigida che bisogna crescere ma senza fare debiti. Il nuovo Patto è un compromesso e arriva dopo che l'orizzonte viene stravolto da pandemie e guerre. È su questo che ci si ritrova a chiacchierare con Giovanni Orsina, di professione storico, un intellettuale che ha il vizio anomalo per questi tempi di non ragionare di pancia.
Il nuovo Patto di stabilità prevede un taglio del debito per l'Italia di circa 10 miliardi l'anno. È un danno o un'occasione?
«Tutti hanno incontrato una enorme difficoltà a ridurre la spesa pubblica. Ci hanno provato in tanti, ma non c'è mai riuscito nessuno, governi di destra, di sinistra, tecnici, tutti alla fine si sono arresi. L'unica speranza è che la sfida venga affrontata con alle spalle una crescita sostenuta. Il governo dovrebbe dedicarsi maggiormente a questa priorità»
Il nuovo accordo resta piuttosto rigido. È nato già vecchio?
«È un passaggio, un momento di razionalizzazione rispetto a un Patto di stabilità pensato in un'epoca diversa e di fatto smentito e non rispettato praticamente mai. Non mi sembra che il nuovo sia però lo strumento adatto a ripensare o rilanciare l'Europa. È la presa d'atto di come le regole vecchie fossero inadeguate».
È un approdo a corto raggio.
«Si è trovata una formula per navigare. Non è veloce ma è meglio che restare incagliati».
Quale formula?
«È stato replicato il modello Next Generation, quello che dà vita in Italia al Pnrr. Non è il metodo sovranazionale, quello per cui i singoli Stati cedono larghe fette della loro sovranità, ma neppure il sistema intergovernativo basato sull'unanimità. Si è scelta la strada per cui Bruxelles negozia con i singoli Stati un punto di caduta. Come se fossero ventisette accordi bilaterali. È un punto intermedio tra l'Europa gollista delle patrie e quella federalista di Spinelli, semplificando molto».
Siamo ancora lontani dal manifesto di Draghi, che sembra evocare gli Stati Uniti d'Europa.
«Parecchio. Noi abbiamo delle sfide esterne, in alcuni casi perfino esistenziali, alle quali è molto difficile rispondere Stato per Stato. Draghi quindi reclama una maggiore integrazione europea con un ragionamento funzionalista: le singole nazioni non possono farcela, serve un'Europa più forte. È un discorso a tal punto fondato che negli ultimi anni abbiamo visto molte forze politiche sovraniste o eurocritiche accettare l'idea che ci sia bisogno d'Europa. Lo stesso governo Meloni, alla fine, chiede maggiore condivisione. È Europa sull'immigrazione. È Europa sulla difesa. È Europa sul debito. I discorsi alla Draghi, che vengono da lontano, si sono sempre impantanati sullo stesso terreno».
Cioè?
«Se tu vuoi produrre politiche pubbliche comuni devi prima avere una politica europea. E quella non c'è. Ancora oggi le elezioni europee sono vissute come elezioni nazionali di second'ordine. Faccio un esempio concreto. L'esigenza di una difesa comune non è recente. Il dibattito comincia nel 1950. Quattro anni dopo però si schianta, il 30 agosto del 1954, con il voto dell'assemblea nazionale francese. È una partita già vista, naufragata sugli scogli delle sovranità nazionali».
Se le politiche sono nazionali è su quello che votano gli elettori. Chi se ne frega dell'Europa?
«Finora è stato così.
E per ragioni profonde e sostanziali, come s'è detto: non è una questione secondaria che la politica sia rimasta molto più nazionale che europea, soprattutto se vogliamo che l'Europa sia democratica. Ma gli Stati europei, isolati, sono vasi di coccio sparsi tra l'America e la Cina. Buona fortuna».
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