"Cose inimmaginabili" Quelle rivelazioni su uno dei giudici che condannò il Cav

Al Csm ricordano parole choc del magistrato Aprile sulla camera di consiglio che condannò il Cav. E sarebbe entrato anche un estraneo

"Cose inimmaginabili" Quelle rivelazioni su uno dei giudici che condannò il Cav

La frase è quella famosa di Blade Runner: «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi...» Lui, non era il replicante del famoso film di fantascienza ma un magistrato di Cassazione, consigliere del Csm. Racconta qualcuno a Palazzo de' Marescialli che Ercole Aprile l'abbia ripetuta più volte quella frase, con un eloquente ammiccamento, quando gli chiedevano del suo precedente ruolo di giudice nella sezione Feriale della Cassazione, che il primo agosto 2013 condannò definitivamente Silvio Berlusconi per frode fiscale. Le «cose indicibili», così le definiva, si riferivano a quel che vide e sentì nel segreto della camera di Consiglio, quella in cui secondo fonti non identificate di Repubblica, il relatore Amedeo Franco (scomparso un anno fa) sarebbe stato scoperto dagli altri quattro componenti a registrare la loro conversazione di nascosto. Avrebbe nascosto in bagno un cellulare o altro dispositivo e lì l'avrebbe trovato un collega del collegio andato a controllare subito dopo.

Non si sa chi siano Toga1 e Toga2 che concordano sulla ricostruzione dei fatti, secondo il quotidiano, ma la frase di Aprile riferita a noi da una Toga3 sarebbe la conferma del fatto che successe qualcosa di veramente grave quel giorno. Al Csm, dove il magistrato pugliese approdò un anno dopo, nel settembre 2014, candidato da Magistratura Democratica, c'è chi ora giura che si lasciò sfuggire anche di più.

«Quando insistevo per sapere qualcosa su come si arrivò al verdetto su Berlusconi - racconta un ex componente del Csm - un po' si apriva e tra le righe mi lasciò capire che in mezzo alle cose che non poteva raccontare c'era addirittura il fatto che, in spregio a tutte le regole, qualcuno sarebbe entrato in quella camera di Consiglio». La sala blindata del Palazzaccio romano, dove si preparava l'ultimo atto del processo Mediaset, deve averne davvero viste di cose eccezionali, che forse non conosceremo mai davvero.

Allora e per gli anni successivi tutti tacquero su quanto successe, sempre che la vicenda sia confermata, non denunciarono tentativi maldestri di intercettazione, scandali coperti, presunti reati o illeciti disciplinari commessi, pressioni, interferenze dirette o indirette.

Solo un angosciato Franco, mesi dopo, parlò privatamente al leader di Forza Italia quasi scusandosi, come abbiamo sentito in un audio divulgato recentemente in cui parla di verdetto «manipolato» e di «plotone d'esecuzione» per l'ex premier azzurro.

Una sorta di congiura del silenzio, dei cinque ermellini e probabilmente anche di altri che sapevano, protesse il segreto al quadrato di quella camera di Consiglio agostana nell'austera Suprema corte. Forse, conveniva a tutti tacere. Solo ora che Franco è morto, e che due dei cinque consiglieri sono in pensione, eventuali reati di 7 anni fa sono prescritti e probabilmente anche gli illeciti disciplinari decaduti, brandelli di notizie sembrano emergere. Come il presidente del collegio Antonio Esposito e il collega Giuseppe De Marzo (manca all'appello Claudio D'Isa), Aprile interrogato da Repubblica si trincera dietro il segreto della camera di Consiglio, ma è l'unico a non chiudere completamente la porta: «Rispetto il lavoro d'inchiesta - dice-, ma non posso affermare né smentire nulla. Potrei essere liberato dal mio dovere di totale riserbo solo se venissi interrogato, da un organo giudiziario o amministrativo». Se ci fosse un'inchiesta o un procedimento disciplinare, sembra lasciar capire, sarei tenuto a parlare.

La tentazione, in questi anni, se l'ha avuta, l'ha repressa. Anche quando, al Csm si trovò a votare in plenum sull'avanzamento di carriera proprio di Franco. Non si oppose ma neppure appoggiò la nomina del giudice a presidente di sezione. Lui e Nicola Clivio, dello stesso cartello di sinistra Area, furono gli unici nella seduta plenaria ad astenersi sulla «promozione» del magistrato. Che passò comunque tranquillamente, come sempre succede quando si tratta delle ormai famose «nomine a pacchetto» concordate tra le correnti per spartirsi i posti, come abbiamo visto nel caso Palamara.

Aprile non giustificò la sua astensione, un atto puramente formale, non colse l'occasione per spiegare come mai non volesse favorire la progressione in carriera del collega di Cassazione. Forse, in quel caso avrebbe dovuto denunciare pubblicamente clamorose irregolarità di un processo che cambiò la storia del Paese.

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