Credito, il governo fallisce ancora Con Atlante si è toccato il fondo

La misura salva banche bocciata dal Fmi è l'ennesima prova dell'incapacità di Palazzo Chigi Se basta questo strumento finanziario contro la crisi, perché non farlo per artigiani e agricoltori?

Credito, il governo fallisce ancora Con Atlante si è toccato il fondo

Come il gigante da cui prende il nome, Atlante, il fondo per la ricapitalizzazione e la gestione dei crediti deteriorati delle banche italiane è stato già pietrificato dal direttore del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, che ne ha apprezzato certamente lo spirito di risolvere l'annoso problema del traballante sistema bancario italiano, come ha tenuto ad evidenziare il governo e la stampa tutta, ma ne condiziona la fattibilità al giudizio delle istituzioni europee.

Ecco il punto. Per la Commissione europea, com'è congegnato, vale a dire con l'intervento della Cassa depositi e prestiti, ma anche per il solo fatto che l'ideazione del fondo e le scelte su come e quando utilizzarlo siano imputabili al decisore pubblico, Atlante rischia di essere sonoramente bocciato in quanto «aiuto di Stato». C'è poca sostanza, quindi, per poterne sbandierare le magnifiche sorti e progressive. In oltre due anni di governo, Renzi e compagni hanno dimostrato di non essere in grado di mettere mano e risolvere i problemi strutturali del paese.

Il fondo Atlante per le banche, che rischia di fallire prima ancora di aver visto la luce, così come è già accaduto per la bad bank, è solo l'ultima dimostrazione della incapacità di agire dell'esecutivo e della sua ipocrisia. Non si è cambiato verso con il Jobs Act, non si è cambiato verso con la Riforma della Pubblica Amministrazione, non si è fatto nulla con la spending review, per citare i provvedimenti più pubblicizzati, ma soprattutto nulla è stato fatto per combattere alla radice i due veri freni dell'economia italiana: bassa, bassissima produttività e pochi, insufficienti investimenti produttivi. Il Documento di economia e finanza (Def), approvato dal Consiglio dei ministri venerdì 8 aprile, quindi l'ultimo, il più aggiornato disponibile, purtroppo conferma per il terzo anno successivo questa tendenza. Oggi evitiamo di entrare nella discussione che appassiona il governo sui decimali in più o in meno di deficit. E neppure ci entusiasma polemizzare sulla sempre annunciata riduzione del debito pubblico in percentuale del Pil, naturalmente anch'essa per uno «zero virgola», ottenuta con previsioni che hanno uno scarto di errore ben superiore agli obiettivi propaganda. Il problema del debito è enorme e non viene scalfito con qualche gioco contabile né, ancor peggio, con masochistiche vendite, a prezzi spaventosamente bassi, dei gioielli di famiglia (Eni, Enel, Poste, ecc.), che se danno un momentaneo risultato in termini di stock riducono, però, di pari ammontare, gli incassi da dividendi, per erodere furbescamente e di poco uno stock di quasi il 133%, crescente di mese in mese.

Oggi vogliamo far partire una discussione seria, dal punto di vista economico e della stabilità finanziaria, sui problemi strutturali dell'economia italiana. Uno: la produttività. La sua crescita, da cui dipendono i redditi e il benessere dei cittadini, si è ridotta con continuità nei decenni scorsi fino ad avere segno negativo negli ultimi anni. Con differenziali tra i vari settori, ma questa è la dinamica media. È diminuita la produttività totale dei fattori, il che vuol dire che il prodotto cresce meno dell'aumento dell'uso dei fattori produttivi, ed è diminuita la produttività del lavoro, da cui dipende la sua remunerazione. È vero, la produttività del lavoro difficilmente aumenta in periodi di recessione, almeno nella fase iniziale, perché la caduta della produzione per assenza di domanda è in genere superiore alla riduzione immediata di occupazione. Ma dopo otto anni di crisi e un massiccio aumento della disoccupazione il fatto che la produttività continui a non aumentare è preoccupante. Mentre nel periodo 2007-2011, cioè con l'impatto violento della crisi, la produttività del lavoro è rimasta stagnante, essa è poi crollata successivamente, e negli ultimi due anni è diminuita di circa un punto percentuale. Questo non avviene quasi mai nelle fasi di ripresa, per questo è un segnale inquietante. Il dato strutturale è che rispetto al 2007 la produttività del lavoro oggi è ancora inferiore di quasi il 2% (che tra l'altro è solo la metà della riduzione conseguita negli ultimi due anni, ancor peggiori), e il tasso di occupazione è diminuito, sempre rispetto al 2007, di oltre il 5%.

Cosa c'è dietro questo trend? Essenzialmente la caduta degli investimenti. E questo è l'altro nodo di fondo. Due: in Italia sono diventati ormai negativi anche gli investimenti al netto degli ammortamenti. Significa che si riduce lo stock di capitale e non solo la sua variazione. Non sorprende quindi che i dati Eurostat indichino una caduta anche del prodotto potenziale italiano, cioè la sua capacità produttiva. La questione è europea: se non ripartono gli investimenti non aumenta la domanda interna e soprattutto non aumenta la produttività. Tutti ormai invocano gli investimenti pubblici, dalla Bce al Fondo monetario internazionale, perché, soprattutto quelli in infrastrutture materiali e immateriali, servono ad aumentare anche il rendimento, cioè la produttività, degli investimenti privati, cioè contribuiscono a rilanciarli. In Italia nei due anni di governo Renzi è stato fatto il contrario: gli investimenti pubblici, che pur nel pieno della crisi si erano mantenuti intorno al 3% del Pil (poi scesi al 2,6% nel corso della crisi del debito del 2012) sono crollati al loro minimo nel 2014 e nel 2015, tra il 2,2% e il 2,3%, e così si manterranno nei prossimi anni, secondo le ultime previsioni della Commissione europea. Da queste due gravi debolezze dell'economia italiana (bassa produttività e scarsi investimenti) deriva anche la debolezza del nostro paese nelle trattative con gli altri partner europei, i quali comprendono certamente che la produttività non cresce per decreto governativo, ma anche che l'uso di risorse scarse per finanziare bonus di vario tipo non rappresenta una politica di sostegno all'innovazione tecnologica e alla formazione del capitale umano per fare la rivoluzione necessaria. Quando il tema è l'Italia, tra gli economisti europei non si parla d'altro, mentre il governo continua a propagandare le sue false riforme e i suoi falsi risultati strabilianti di politica economica e finanza pubblica.

Non solo i conti nel nostro Paese non sono in ordine, anzi sono pericolosamente a rischio, ma produttività e investimenti rappresentano i temi da cui non si può prescindere se si vuole davvero cambiare il paese. Probabilmente, però, al presidente del Consiglio tutto questo non interessa, impegnato com'è ai suoi obiettivi di brevissimo termine di conservazione del potere comprandosi il consenso di elezione in elezione, di bonus in bonus, di fondo in fondo. A spese nostre. Un ultimo cattivo pensiero: se davvero Renzi e Padoan pensano di aver risolto, con un colpo di bacchetta, tutti i problemi del settore bancario italiano; se è davvero tanto facile, perché, allora, per rilanciare l'economia il governo non vara non uno ma tanti Fondi quanti servono per le diverse categorie e settori? Sul filo del paradosso, ma non tanto, la fantasia ci può aiutare: un fondo Mercurio, per esempio, potrebbe servire ai tanti commercianti entrati in crisi in tutti questi anni di recessione, bassa domanda e crollo dei consumi; un fondo San Giuseppe per gli artigiani, anch'essi allo stremo; un fondo Demetra per gli agricoltori, che subiscono la concorrenza dei prodotti nord-africani; un fondo sant'Ivo o san Matteo per i tanti liberi professionisti che hanno visto dimezzarsi i loro clienti e il loro fatturato. E ancora: un fondo San Gennaro, per cui si troverà sicuramente una specializzazione anche al di fuori della tanto amata Napoli; o un fondo universale san Giuda Taddeo per la risoluzione dei casi impossibili, come ad esempio il rilancio dell'acciaieria di Taranto.

Con le stesse caratteristiche di Atlante, vale a dire un fondo«privato», ma con partecipazione della Cassa depositi e prestiti; un fondo attraverso il quale si possa beneficiare di misure pubbliche straordinarie di welfare per i dipendenti in esubero. Cambiando, nello stesso tempo, nei punti che servono, il diritto fallimentare. Con l'evidente abbandono del mercato per approdare a un modello di economia socialista, di mutua assistenza, con risorse illimitate.

È questo che vogliono Renzi e Padoan, attraverso tanti bei decreti legge da approvare in Parlamento grazie a tante belle questioni di fiducia? Se sì, lo dicano chiaramente ai cittadini, all'Europa e ai mercati. Questi ultimi non saranno tanto d'accordo.

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