Tra un po' cominceranno a tirarsi ceffoni. Come Will Smith contro Chris Rock. Il livello della rissa nei talk show sta sorpassando ogni livello. Soprattutto se si considera che quelli che guerreggiano tra loro parlano di una guerra vera, di persone innocenti ammazzate. Da settimane virologi e infettivologi che ci hanno elargito angoscia e notti insonni per due anni parlando e sparlando di Covid sono stati sostituiti dai «guerrologi». Che, come puntualmente succede quando s'accende la telecamera, si fanno prendere dall'ebbrezza della televisione, una malattia di stagione che dà alla testa, che trasforma i più pacati studiosi in ringhiosi campioni della contrapposizione. L'ultima delle scazzottate è andata in scena l'altra sera a Cartabianca, a Raitre, televisione pubblica, e questo è ancora più grave. Protagonisti l'ormai notissimo Alessandro Orsini, docente di sociologia del terrorismo internazionale alla Luiss e Vittorio Emanuele Parsi, docente alla Cattolica. È finita tra «sei ridicolo» e «non sai dire nulla» con Parsi che se ne è andato indispettito: «Era questo che volevo evitare, fare da cassa di risonanza a queste buffonate. Vi saluto».
Ormai è lunga la lista di esperti, professori, filosofi, strateghi miliari, generali che vengono assoldati dai talk show. E, si sa, i toni accesi aumentano l'audience. E c'è chi sceglie, come fanno Berlinguer, Formigli o Giletti, di invitare gli opinionisti che fanno più scalpore, trasformandoli in personaggi e lo giustificano in nome della libertà di espressione. Insomma, prima c'era la contrapposizione tra Sì Vax e No Vax, ora quella tra Sì War e No War (contro Putin). Sfumature, dubbi e dibattito civile sono banditi: si può essere solo pro o contro.
Chi ha capito alla perfezione il meccanismo dei talk show (e ci è saltato sopra) è Orsini. Al di là di quanto dice è balzato alla fama nazionale in poche ospitate. Attirandosi le accuse (rigettate) di filo-putiniano si è aggiudicato un posto in prima fila nel dibattito. Appena si siede al tavolo di Cartabianca o di Piazza Pulita, c'è qualcuno che comincia a sbuffare o che comincia a insultarlo. Se il suo aplomb glielo concedesse, Mario Calabresi lo prenderebbe per il collo. O a schiaffi, per restare in clima hollywoodiano. Lui di rimando, infila una provocazione dopo l'altra, alza sempre più l'asticella, spara bordate contro il «pensiero dominante» in nome della «complessità dell'analisi» («Ci sono tre grandi vigliacchi: la Nato, l'Ue e gli Stati Uniti»), ha detto l'altro ieri). Dopo che i vertici Rai hanno stracciato il contratto (duemila euro a puntata) che gli voleva fare Bianca Berlinguer, è assurto al ruolo di martire.
Tra gli altri No War o filo-putiniani (per dirla con i detrattori) si annoverano anche la filosofa Donatella Di Cesare, il fisico Carlo Rovelli e lo storico Luciano Canfora. Contro di loro si scaglia spesso la direttrice dell'Istituto Affari Internazionali Nathalie Tocci che li tratta con sufficienza. Ma urla e risse si accendono soprattutto quando vengono messi uno contro l'altro esperti e giornalisti: pensiero complesso e semplificazione portano a scontri epocali.
C'è chi cerca di sottrarsi a questo giochino: per esempio il direttore di Limes Lucio Caracciolo: poche sue parole, precise, autorevoli, valgono ore di altri discorsi. Lo stesso dicasi per l'analista di geopolitica Dario Fabbri. O per Paolo Magri, docente alla Bocconi e vice presidente Ispi. Non per nulla, chi li invita, Gruber, Mentana, Maggioni stanno alla larga dalle risse.
Lunga anche la lista dei generali chiamati a spiegare le strategie di guerra come Camporini, Bertolini o Rossi che vediamo spesso a Mediaset, Rai e La7.Insomma, chiudere i talk non si può. Offrire agli spettatori un barlume di comprensione è necessario. Dosare la presenza degli incendiari si deve.
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