La democrazia dei pochi. Sono i giorni di metà agosto e le opposizioni sentono il dovere di rendere sofferenti le ferie di Giorgia Meloni. L'idea è di metterla all'angolo sul salario minimo, l'ultima grande bandiera della sinistra, uno slogan da ripetere come un tormentone estivo, con la speranza che l'autunno torni a essere caldo. L'accusa verso la premier è di prendere tempo. Tergiversare. Il dialogo come melina e il Cnel come una tribuna dove gettare la palla. È per questo che Pd, Cinque Stelle e affini hanno messo su una controffensiva popolare che scuote il governo. È l'ora della grande petizione. Il caldo sconsiglia le piazze e così si firma on line senza sudare più di tanto. Non poteva andare meglio. I paladini del «salario minimo subito» fanno sapere che l'onda d'urto ha mandato in tilt la piattaforma digitale. Troppa gente si indigna e si sbraccia per il boicottaggio del governo. È una vergogna. In centomila hanno già firmato, in un solo giorno. È la prova che su questa battaglia Meloni e i suoi alleati andranno a fondo. Lo dice Elly Schlein, lo giura Giuseppe Conte, se ne fa portavoce Nicola Fratoianni e tutti insieme quasi si commuovono: «La risposta degli italiani è stata straordinaria». Ecco il bug, il baco nella ragnatela, il punto fragile di questa storia. I centomila firmatari non hanno un peso rilevante, neppure se fosse molti ma molti di più. Non sono la risposta degli italiani. È solo l'atto politico, legittimo, di una bolla. La petizione ci dice che un certo numero di persone si riconosce nella battaglia per il salario minimo. L'errore della sinistra è sbandierare questo fatto come volontà generale. È un arbitrio che va perfino al di là della vocazione totalitaria che inquina la filosofia di Jean-Jacques Rousseau. È una sorta di giacobinismo per fortuna così superficiale e maldestro da non avere conseguenze. Il principio però è lo stesso. Il mio club, la mia bolla, rappresenta il tutto. La petizione come legittimazione della bontà assoluta dell'azione politica. La legge sul salario minimo non è più quindi la proposta, il desiderio, di una minoranza parlamentare. È un dovere morale. È un provvedimento giusto. Giusto perché? Non c'è bisogno neppure di chiederlo. Il salario minimo è giusto perché lo dice la petizione degli italiani. È una bestemmia, ma a quanto pare ci credono. Tutto questo potrebbe evaporare a settembre, la petizione liquidata come un gioco dell'estate. Resta però un costo da pagare. La petizione non è un referendum. È solo la parodia di una democrazia diretta. È una mistificazione. È una volgare manipolazione della realtà. È una bugia. A questo punto il problema non è il salario minimo, ma chi se ne fa portavoce, perché per vizio atavico finisce per svilire la democrazia. È l'idea che il voto possa essere sostituito, quando serve, con una sottoscrizione condominiale.
L'elettore viene sostituito dal firmatario, che in qualche modo legittima le battaglie identitarie. Questa logica toglie alla democrazia l'orizzonte temporale. È tutto istantaneo e strumentale. Non è visione, ma solo appartenenza.
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