Il depresso non è un terrorista

Il depresso non è un terrorista

Piano con le parole. Non criminalizziamo i depressi e non patologizziamo i terroristi. L'insistenza dei media nell'accostare la depressione al terrorismo è superficiale, e a sua volta violenta. Purtroppo la depressione è una condizione di sofferenza diffusissima, nel 2020 sarà - dice l'Organizzazione Mondiale della Sanità - la seconda patologia nel mondo (subito dopo i disturbi cardiovascolari). Ma i depressi nella loro stragrande maggioranza non hanno mai attaccato nessuno, salvo se stessi, e di solito silenziosamente. Anche in questo caso dunque, l'accostare le categorie psichiatriche dei manuali diagnostici (del resto a loro volta spesso tutt'altro che cristalline) ai comportamenti umani non rispetta la condizione dei malati e poco ci racconta sui fenomeni di cui si tratta.

Nel caso di Nizza poi, è sorprendente descrivere come depressa una persona che dopo 30 anni già audacemente trasgressivi e movimentati si procura un camion di molte tonnellate, irrompe e traversa una zona pedonale e fa una strage di straordinaria violenza, senza dimenticarsi di inviare prima alla famiglia l'incasso dell'operazione e della liquidazione di tutto ciò che aveva. La condizione psicologica di Mohamed Lahouaej appare più stabilmente vicina alla posizione maniacale che a quella depressiva. Nel suo caso, come per gli attentatori al Batacalan e a Charlie Hebdo, si tratta di individui in grado di condurre azioni complesse con un'energia e entusiasmo difficilmente rintracciabili in una personalità depressa.

Vorrei però non cadere nella fastidiosa situazione della «diagnosi mediatica» fatta su ritagli di giornale. Uno dei maggiori psicoanalisti viventi, Tobie Nathan, fondatore dell'etnopsichiatria e professore alla Sorbona, vede dietro questi comportamenti un'origine religiosa, la presenza forte di dei, forze antiche e profonde, che oggi «non vanno d'accordo tra loro». È probabilmente un aspetto della questione. Ma potrebbe anche trattarsi di comportamenti umani che non riescono ad ascoltare le rispettive «divinità», i propri autentici principi ispiratori. È però su quel piano, molto più profondo, che occorre cercare la spiegazione all'attuale malessere, che pare davvero essere ben altro e ben più della depressione, che ne è piuttosto il risultato.

L'uomo ha bisogno di essere contenuto (sembra dire anche un antropologo laico come Marc Augé a Maria Serena Natale sul Corriere), da «un progetto di vita complessivo, un'idea forte di umanità». Altrimenti si ammala. Dopo è troppo tardi. Nessuna categoria clinica potrà spiegarne, e rimediare, i disastri.

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