Lo prese sottobraccio come come si fa con un vecchio amico ma lo avrebbe voluto morto. «Se qualcuno un giorno cercasse di ucciderti - gli sussurra - mi auguro spari bene come te». Lee Oswald il marine disertore che veniva da New Orleans, il cecchino di Dealey Plaza sposato al nemico, l'uomo che aveva ucciso il presidente Kennedy, lo guardò con un occhio gonfio e il sorriso obliquo: «Non ti preoccupare: non mi sparerà nessuno» Poi, infilando i sotterranei del quartier generale della polizia di Dallas, andò incontro, senza saperlo, a uno che sparava bene come lui. Ore 11.20 del 24 novembre 1963.
Un omicidio strano
Jim Leavelle ha 43 anni ed è da tredici anni in forza alla Omicidi. É contrario a far uscire Oswald da quella parte per consegnarlo al furgone blindato che deve portarlo al penitenziario della contea. Troppa gente, troppa calca, troppo caos. «Ma l'ho promesso ai ragazzi della stampa - gli dice il capo della polizia Jesse Curry - e non ho intenzione di rimangiarmi la parola». Ci sono una settantina di poliziotti là sotto e decine di giornalisti, stazioni radio collegate, telecamere puntate. C'è anche un uomo che non dovrebbe esserci. Si chiama Jack Ruby, gestisce casinò e strip club, è sempre circondato da squillo e spogliarelliste: è elegante, in giacca, cravatta e cappello e ha una calibro 38 nascosta nella tasca. È normale che ce l'abbia, la porta sempre, perfino in sinagoga. Quando Walter Cronkite in maniche di camicia, con alle spalle le telescriventi, si toglie gli occhiali e con la faccia tesa annuncia «President Kennedy is dead» Ruby piange, smette di mangiare e dice alla sorella: «Non mi sono sentito così male nemmeno quando sono morti mamma e papà». Gli agenti lo conoscono tutti, molti frequentano persino i suoi locali, soprattutto il Carousel Club dove va anche Jim, ma chi lo abbia fatto entrare non si sa. Quando l'agente Graves gli salta addosso schiacciandolo a terra e bloccando il cilindro della pistola che ha appena sparato Ruby è sorpreso: «Ehi, ma io sono Jack». Tre minuti prima di entrare nella centrale si era fermato all'ufficio postale per inviare un vaglia da venticinque dollari a una delle sue ballerine. Doyle Lane: l'impiegato dell'ufficio telegrafico della Western Union, lo aveva visto calmo e tranquillo. Un insospettabile perfetto.
Una foto da urlo
Tutto era fuoriposto in quell'immagine che regalò al fotografo Bob Jackson, del Dallas Times Herald, il Premio Pulitzer, a partire dallo stesso Leavelle, che quel giorno non doveva lavorare e che non sapeva di avere in custodia il killer del Presidente degli Stati Uniti. Pensava invece fosse l'assassino di un collega, l'agente J.D. Tippit, ammazzato con quattro colpi di pistola. Fuoriposto era l'improbabile completo chiarissimo, cappello alla Gei Ar compreso; fuoriposto la posa improbabile e l'espressione impietrita, più adatta alla locandina di un film anni Cinquanta che a un agente che ha in custodia, ammanettato al suo polso, il pericolo pubblico numero uno; fuoriposto Ruby che Oswald non lo aveva mai visto, ma che quando lo incrociò, raccontò, ne fu talmente choccato da estrarre la calibro 38 e fare fuoco: un colpo solo, allo stomaco, mortale. «Volevo evitare alla signora Kennedy lo strazio del processo» cercò di giustificarsi. Il giorno dopo l'omicidio è sempre Leavelle ad accompagnare Ruby in prigione. É triste e sconsolato: «Volevo essere un eroe, invece ho rovinato tutto». Morirà di cancro quattro anni dopo.
Una vita in trincea
Trovarsi al momento giusto nel posto sbagliato era una costante di Jim, nato nel 1920 nella Contea di Red River, tra Detroit e Bogotà, povero e senza sogni. «Papà e mio fratello lavoravano in una segheria vicino a Bagwell, portavano legna in tutto il Texas». Ma non basta per campare. Jim lascia la scuola per raccogliere mais e cotone e arare campi per 50 centesimi al giorno. A vent'anni si arruola in Marina, lo imbarcano sulla Uss Whitney, la nave che rifornisce i cacciatorpediniere di tutto, «dal carburante alla carta igienica», un lavoro faticoso ma sicuro se non fosse per il posto: Pearl Harbour. «Non erano ancora le otto del mattino, avevamo appena finito di fare colazione, molti di noi si preparavano a scendere a terra, quando abbiamo visto arrivare gli aerei». Sono 353, in picchiata, e hanno la bandiera giapponese sulla fusoliera. Colpiscono anche la sua nave: «Vedevo i corpi dei miei compagni galleggiare come tronchi sulle acque», ma per fortuna la Uss Whitney è in una posizione defilata. A distruggerla non sono le bombe ma, settimane dopo, un tifone che gli spezza le gambe. «Stavo salendo una scala, le onde mi scagliarono sul ponte d'acciaio della nave». Lo ricoverano all'Oak Knoll Naval Hospital vicino a Oakland, incrocia lo sguardo di Taimi, una bella infermiera peccato solo esca già con un suo amico. Che quando viene trasferito chiede proprio a Jim di prendersene cura. Dirà: «Sono stato di parola: me ne sono preso cura per 72 anni» Le chiede: «Ti piacerebbe vedere la mia Detroit?», lei dice si, un mese dopo sono marito e moglie. La prima notte dormono sul pavimento di legno della cucina di un amico. Non si lasceranno mai più.
Un killer solitario
Nonostante avesse fatto da consulente a Oliver Stone per il film Jfk, Jim non credeva al complotto, per lui, come per la Commissione Warren, Oswald aveva fatto tutto da solo «e se è morto è colpa mia, sono io che ho fallito come agente di scorta». Racconta che sull'ambulanza che lo portava al Parkland Hospital, domandò a Oswald «sei conciato davvero male figliolo, vuoi dirmi qualche cosa? Mi guardò per un secondo, disse no con la testa e chiuse gli occhi per sempre». Trent'anni dopo rischiò di far fare la fine di Oswald al fotografo Bob Porter. Voleva fargli vedere come Graves avesse afferrato la pistola di Ruby per impedirgli di sparare. La pistola, la stessa calibro 38, sparò sul serio e lo ferì al braccio. Ma era un bravo poliziotto il vecchio Jim, da quasi vent'anni il Premio Detective of the Year del Dipartimento di Polizia di Dallas porta il suo nome. Lui dal 1975 era in pensione.
L'ultimo viaggio
Jim se ne è andato due anni fa, sei giorni prima del 99mo compleanno, ucciso prima che da un infarto da un'operazione all'anca che si era rotto cadendo durante una vacanza in Colorado. Dieci anni fa, per un'altra caduta, aveva perso un occhio cosa che non gli impediva di guidare l'auto. Taimi invece non c'era più da cinque anni. Raccontava che durante un viaggio a Washington «Gerald Ford mi strinse la mano e mi chiese l'autografo, ci credete? Non mi sembrava vero che il presidente degli Stati Uniti volesse il mio autografo». Ma l'abito era persino più famoso di lui. Era marrone chiarissimo, non bianco, ed era la prima volta che lo indossava. Lo aveva comprato un collega ma gli stava stretto e lo aveva regalato a lui. Adesso insieme alla manette e al cappello è custodito al Sixth Floor Museum, al sesto e settimo piano dell'ex deposito di libri della Texas School da dove Oswald sparò a Kennedy: tra i 65mila oggetti che raccontano l'epopea dei Kennedy ci sono anche la telecamera di Zapruder, il cappello di Ruby e la carabina di Oswald. Un manichino dietro una vetrata lo congela nella stessa posizione di allora.
Sorrideva per essere finito dentro due tragedie nazionali, Pearl Harbour e il delitto Kennedy: «Fossi stato a New York l'11 settembre avrei pensato che qualcuno stesse cospirando contro la mia vita...» Grazie Jim, ma a complotti siamo già a posto così.
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