Che musica, maestro Venezi. Musica per le orecchie di chi, l'altra sera, sul palco di Sanremo l'ha sentita rimarcare la sua scelta di essere chiamata «direttore» perché per lei «quello che conta è il talento e la preparazione»; frase per la quale ha addirittura scomodato la parola «responsabilità», che se ne stava dimenticata in soffitta dai più. Dal popolo dei social, per esempio: lì, tutta un'altra musica, non solo perché si sono subito schierati i «favorevoli» e i «contrari» ma perché, appunto, parole come «responsabilità», «talento» e «preparazione» sono tabù assoluti, limitanti pretese di impegnarsi e di pensare, e di farlo con la propria testa.
Beatrice Venezi, il maestro (donna) più giovane a calcare i palchi delle orchestre di tutto il mondo, oltre ad avere talento e preparazione ha appunto il vizio di pensare, e di farlo con la propria testa; perché - e questo dà molto fastidio, a tanti uomini e a tantissime donne, specialmente quelle che si vantano di «difendere» le altre - sotto quella chioma di capelli biondissimi, che quando dirige pare la criniera di una leonessa, si nasconde un cervello. E questo, per un certo femminismo standard, è intollerabile: che si possa essere liberi secondo modalità non da esso stesso prescritte, è chiaramente una forma di prevaricazione o, quantomeno, di occulta sottomissione al nemico (il maschio, ça va sans dire). Si dirà che non è soltanto il femminismo, o ciò che ne resta, a dettare legge ma, più genericamente, il politicamente corretto: beh, il meccanismo è identico; ed è lo stesso per cui proprio Beatrice Venezi, tanto criticata perché ha osato farsi chiamare «direttore» anziché «direttrice», da tante colleghe è anche criticata per i suoi abiti «troppo femminili» (certo, vestiti che lei può permettersi di sfoggiare...), che «distrarrebbero» dalla musica. Una volta ci ha detto, a questo proposito: «A me sembra offensivo nei confronti della musica. È pretestuoso... Forse un retaggio culturale, o generazionale, di un certo tipo di femminismo che ha fatto più male che bene. E che è finito con il diventare ancora più maschilista, limitante e tranchant nei giudizi».
C'è da dire che sui social non è neanche poi solo questione di femminismo o ideologia dominante: è voglia di giudicare, punto e basta, schiacciando la libertà altrui e sentendosi, per questo, molto liberi e intelligenti. Fuori dai social, invece, interpellata per competenza sull'argomento, l'ex presidente (o presidentessa? Come preferisce, nel suo caso) della Camera Laura Boldrini ha detto che l'avversione del maestro Venezi per il termine «direttrice» «non rende merito al percorso che tante donne hanno fatto per raggiungere queste posizioni». Caspita, non è che il maestro Venezi magari ne sappia qualcosa, di questi sacrifici, e di questi meriti? E ancora: «Spero si renda conto che usare il femminile possa aiutare tante ragazze ad avvicinarsi a questo lavoro che per secoli è stato solo di uomini»; attenzione, ad aiutare non è fare questo mestiere, e farlo ai massimi livelli, mostrando con fierezza la propria femminilità, no, è usare parole declinate al femminile. Sarà.
Sarà anche che non tutte le donne, di successo e non, si piegano ai diktat su ciò che bisogna dire e pensare e come farlo, da J.K. Rowling che ha osato difendere l'identità femminile rispetto al movimento transgender a Catherine Deneuve che ha avanzato dei dubbi sulla «censura da metoo»; sarà che qualcuna pensa al talento, alla preparazione, ai bei vestiti e perfino ai capelli, tutto insieme mentre fa il suo lavoro, e lo fa egregiamente.
E allora la si attacca, perché a ben guardare e a rigirare un difetto lo si trova (al limite lo si ribalta nel suo contrario, che problema c'è: questa non è realtà, bensì, per usare un termine caro all'ideologia, «sovrastruttura»), e anche il pavido Paride, alla fine, trovò il punto debole dell'invincibile Achille...(Visto che molti si sono appellati al vocabolario, la Crusca ha sentenziato: «Ognuno ha il diritto di essere chiamato come vuole nell'ambito della pluralità degli usi esistenti nella lingua italiana»).
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