Li chiamano «orfani di Draghi» ma forse sarebbe meglio «draghiani senza Draghi». Se non altro perché il presidente del Consiglio dimissionario, come dimostrato dall'acclamato intervento al Meeting di Rimini, non è scomparso affatto. Dopo il discorso dell'ex vertice della Bce alla manifestazione di Comunione e Liberazione, è rispuntata la suggestione di un futuro, ipotetico e imprevedibile ritorno in campo del banchiere centrale. Per ora l'argomento non è all'ordine del giorno. E va considerato che Draghi potrebbe anche decidere di restare nell'agone politico puntando però a qualcosa di diverso dai ruoli di governo. Per i più ottimisti tra i draghiani, ci vorrebbero i famosi «tempi supplementari» invocati da Giancarlo Giorgetti, che al momento è abbastanza silente, mentre la crisi di governo era nel pieno della sua fase clou. Certo, rispetto ai desiderata dei ministri che avrebbero voluto restare in sella, sarebbero tempi supplementari parecchio in ritardo. La realtà, per tutti questi esponenti, racconta di due scenari soltanto: le elezioni o il buen retiro, mascherato o reale che sia.
I capi di Dicastero che si erano distinti per «draghismo» si sono dovuti riorganizzare: ognuno a modo suo, a seconda delle contingenze e degli spazi politici individuati. Renato Brunetta, per dire, ha scelto di farsi da parte. L'ex esponente azzurro potrebbe volersi tenere pronto per il prossimo giro: «Mi auguro che chiunque avrà il privilegio di farlo, di guidare il Paese, saprà preservare lo spirito repubblicano che ha animato dall'inizio il nostro esecutivo», ha osservato via social di recente. Mara Carfagna e Mariastella Gelmini hanno preferito l'avventura del Terzo Polo, con Carlo Calenda che in prima battuta era persino disposto all'alleanza con il Partito Democratico. Le due ex azzurre non subiranno lo smacco dell'appartenenza al centrosinistra ma ora fanno parte di un contesto del tutto differente, specie per piattaforma valoriale, da quello da cui provengono. E comunque la prospettiva può essere quella di dover fare da stampella liberal-democratica al ritrovato massimalismo dei dem.
Stefano Patuanelli, che qualcuno reputava decisivo per la tenuta dell'esecutivo d'unità nazionale, è tornato in fretta e furia da Giuseppe Conte e ha strappato la ricandidatura in Parlamento. «Anche i sassi sanno che gli oltre 200 miliardi di finanziamenti europei del PNRR sono arrivati in Italia grazie al lavoro in UE del Presidente Conte», ha scritto ieri via Facebook il contiano di ritorno. Peccato che Mario Draghi sia arrivato a Palazzo Chigi, in sostituzione del capo grillino, anche per via dello stallo dei giallorossi sul Pnrr. Poi c'è Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e leader del correntone di Base riformista: gli ex renziani, a parte qualche eccezione, hanno perso la battaglia delle correnti per le liste elettorali. L'inquilino di via Venti Settembre è tra i pochissimi di quell'area che Enrico Letta ha inteso riconfermare. Il sottosegretario agli Affari europei Vincenzo Amendola, per intenderci sull'entità della resa dei conti interna al Pd, ha rischiato di rimanere a casa nonostante il ruolo ricoperto.
I draghiani del Pd, per farla breve, contano molto meno di prima. In definitiva, i «draghiani senza Draghi» procedono in ordine sparso. Del resto il chiacchierato «partito di Draghi senza Draghi» non c'è e non sarebbe potuto essere altrimenti.
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