Due scene surreali, una dopo l'altra, vengono evocate ieri nell'aula del processo a Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite incriminato per avere ricevuto e poi divulgato i verbali supersegreti del caso Eni. A riferire entrambe le scene è David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a testimoniare in aula. Scena 1. Davigo che va a trovare Ermini due volte, la prima gli racconta il contenuto dei verbali, la seconda glieli consegna in copia, Errmini inorridisce e appena Davigo esce li strappa e li butta. Seconda scena: Ermini che va a raccontare tutto al presidente della Repubblica, e Sergio Mattarella non dice né ah né bah. Muto. Nessun commento. Anche se in quei verbali ci sono le dichiarazioni «pentito» Piero Amara sulla terribile loggia Ungheria che infesterebbe politica, forze armate e lo stesso Csm.
Sarà tutto vero, eh. Anche se, nella ricostruzione che fa Ermini, non tutto fila. I verbali «erano irricevibili», dice, «e li distrussi perché mi volevo liberare di una cosa che non sapevo se era piena di calunnie. La mia riflessione fu che se queste cose fossero uscite dalla mia stanza, avrei fatto un danno incalcolabile». Allora perché accetta di riceverli da Davigo, perché non dice al Dottor Sottile «sei matto, riprenditi questa roba?». Mistero. Perché non gli chiede dove li ha presi? Altro mistero. Però, su suggerimento dello stesso Davigo, Ermini corre al Quirinale: «Davigo era molto deciso sul fatto che io dovessi avvisare il Presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati degli appartenenti alle forze di polizia, finanza e carabinieri, alcuni in servizio altri non più». E lì arriva il clou, con la scena muta di Sergio Mattarella.
Più passa il tempo e più il caso dei verbali di Amara diventa un pasticcio politico-istituzionale. Ermini, che come vicepresidente è di fatto il rappresentante di Mattarella nel Csm, diventa il terminale dello scontro furibondo interno alla Procura di Milano proprio sulla gestione dei verbali sulla Loggia. Ieri appare quasi frastornato, incapace di dare un senso logico alle sue mosse di quei giorni. E infatti nel giro di pochi minuti su di lui si abbatte il commento di Matteo Renzi, che lo volle al Csm ma poi se ne è amaramente pentito: «Oggi Ermini conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro Il Mostro. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l'ha capito». Poche settimane fa, presentando il libro, Renzi aveva detto: «Il vicepresidente del Csm che riceve una prova del reato e la distrugge! Ci sono cose che insegnano al primo anno di serie tv: non si distrugge la prova».
Per Davigo, comunque, la testimonianza di Ermini è un colpo basso: perché il vicepresidente del Csm, per spiegare il proprio operato, dice che il comportamento del Dottor Sottile era del tutto irrituale, «procedure informali da noi al Consiglio non si possono fare, tutto quello che arriva dev'essere formalizzato, non esiste nulla di informale». Illegittimo Davigo quando riceve informalmente i verbali dal pm milanese Paolo Storari, illegittimo quando li rifila a Ermini a tu per tu.
Davigo ieri se ne rende conto subito, chiede la parola, spiega a lungo al giudice che mandarli al Csm per vie ufficiali proprio non si poteva, neanche al ristrettissimo comitato di presidenza (Mattarella, Ermini e i vertici della Cassazione) perché «il Comitato di presidenza non si fidava della struttura amministrativa del consiglio e che il plico venisse visto solo dai consiglieri». Un bel ritratto di un Csm colabrodo, dove carte segrete finiscono in mano a chiunque. Peccato che poi a mandarle ai giornali sia stata proprio la segretaria di Davigo.
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