Fenomenologia del "rompi"

Il viso e le espressioni di Enrico Letta suggerirebbero un carattere diverso e ben altro temperamento politico

Fenomenologia del "rompi"

Il viso e le espressioni di Enrico Letta suggerirebbero un carattere diverso e ben altro temperamento politico. Come pure i natali democristiani, che dovrebbero essere poco inclini alla rottura e più propensi alla mediazione. E, invece, da quando è tornato in pista, specie sui tornanti della corsa per il Quirinale, il segretario del Pd si è trasformato in un «rompi», ogni giorno minaccia una rottura. Se non si trova un'intesa per il Colle su un personaggio che abbia una colorazione più o meno sbiadita di rosso minaccia di rompere la maggioranza, di rompere il governo e la legislatura. Ancora: se Giuseppe Conte accetta l'idea di un nome proposto dal centrodestra paventa la rottura dell'alleanza giallorossa. Non basta: se il Pd non lo segue in questa crociata nel nome di Mario Draghi promette di nuovo la rottura, nell'occasione con le minoranze del Pd.
Letta ha rotto in queste settimane talmente tante volte che ieri, per non diventare monotono e non essere scambiato per un disco rotto, non ha detto «sì», ma ha ammesso che il terzetto di candidature presentato dal centrodestra è di qualità. Un espediente tattico che è durato poco, dato che in serata la nota congiunta dei giallorossi è tornata a dire «no».

Ed il motivo è semplice. A Letta di democristiano è rimasto ben poco, dato che ha una visione singolare del compromesso, che è quasi l'opposto della tradizione scudocrociata: se non è di suo piacimento, se non lo accontenta del tutto, lo considera peggio di una iattura. L'assurdo è che la parola magica con cui ha cominciato la partita del Quirinale è stata «divisivo». L'ha usata per esprimere un veto su Silvio Berlusconi. E sicuramente la utilizzerà per fare morire le candidature di Letizia Moratti, di Carlo Nordio e di Marcello Pera. E, magari, dopodomani, anche del presidente del Senato, Elisabetta Casellati.

Solo che, se va avanti così, finirà per affibbiarsi lui stesso l'etichetta del «divisivo», che è foriera di grossi guai. Quando si ripetono, infatti, solo dei no sull'altare della candidatura Draghi e non si ha una maggioranza, ci si isola e si creano le condizioni per cui alla fine gli altri decideranno da soli. È fatale. I segnali già ci sono. Tutti. Poco meno della metà del Pd guidata da Dario Franceschini non vuole Draghi al Quirinale. Per non parlare dei grillini: da quelle parti il nome del premier non trova udienza. Anzi, c'è diffidenza mista a rancore, al punto che almeno la metà dei grandi elettori, per evitare il premier, è pronta a votare un nome proveniente dal centrodestra.

Così Letta rischia di dire no ad un candidato che però alla fine potrebbe anche farcela. Insomma, un capolavoro politico che sarà ricordato negli annali, come quello di Bersani che portò al massacro Prodi.

E a quel punto, dato che non si può rompere mentre si rischia la guerra in Ucraina, mentre il costo dell'energia va alle stelle e l'inflazione si impenna, mentre i progetti del Pnrr debbono essere ancora messi a terra e il 90% dei parlamentari non vuole le elezioni anticipate, a cominciare da quelli del Pd, tutte le minacce di rottura di Letta si riveleranno per quello che sono: ruggiti di una tigre di carta. Ecco perché quando si è deboli è meglio, molto meglio, ad un certo punto dire sì.

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