Il compito del premier Mario Draghi non sarà semplice. Avviare il cantiere della riforma fiscale a due anni dalla fine della legislatura significa individuare un obiettivo ben definito e cercare di realizzarlo. Il target è noto: applicare il cosiddetto «modello danese» all'Irpef elevando la no tax area e appianando lo «scalone» dell'aliquota media che oggi penalizza i redditi tra 30mila e 55mila euro lordi annui. Non è poco se si considera che il tempo disponibile è sostanzialmente esiguo visto che tra lavori tecnici e dibattito parlamentare trascorreranno alcuni mesi se si intende farla partire nel 2022.
Restano aperte varie questioni che una maggioranza così solida, se solo si fosse costituita prima, avrebbe potuto affrontare. In primis, il disboscamento della giungla fiscale che conta un centinaio di tributi tra imposte dirette, indirette, addizionali regionali e locali, tasse e contributi. Analogamente sarà pressoché impossibile porsi un traguardo complesso come la riaffermazione del principio di uguaglianza tra cittadino-contribuente e Agenzia delle Entrate. «Se il Fisco ti accusa di una potenziale evasione e vuoi aprire un contenzioso, dovrai innanzitutto pagare un terzo delle sanzioni contestate, le spese per la difesa e il contributo unificato per dimostrare la tua buona condotta», osserva Gianluca Timpone, esperto fiscalista, che ricorsa come «l'Agenzia delle Entrate non rinuncia alla causa fino a quando non trova un giudice che le dia ragione». Ecco perché il contenzioso tributario spesso arriva in Cassazione ove i giudici della suprema Corte non devono certo faticare per individuare difetti di applicazione delle norme, visto che le commissioni tributarie provinciali e regionali spesso sono costituite da «avvocati, commercialisti o addirittura periti agrari che si trovano a giudicare casi di evasione internazionale pur essendo digiuni di cognizioni tecniche», aggiunge Timpone.
Ma se il tema della composizione delle commissioni si può rinviare al capitolo della riforma della giurisdizione, non altrettanto si può fare per evitare il continuo smantellamento del corpus delle norme tributarie. Il Testo unico delle imposte sui redditi viene, infatti, ritoccato a ogni manovra di bilancio. Sia nelle parti generali come negli interventi sulle aliquote. Sia in quelle di dettaglio quando si modificano le deduzioni dei beni strumentali degli autonomi come auto aziendali e telefonini. «Non vi è un'unica linea guida perché la stessa Agenzia delle Entrate emana circolari e interpelli sull'applicazione delle norme, un fatto che pone il contribuente in posizione di subalternità, perché le interpretazioni sono a vantaggio di una parte sola generalmente», precisa Timpone. Ma per riscrivere un nuovo Testo unico che resti scolpito nella pietra senza possibilità di modifica servirebbe una legge delega ad hoc e, viste le divergenze di opinione sulla materia nella maggioranza-Draghi, forse è meglio soprassedere e accontentarsi che, per ora, non si parli di patrimoniali o di maggiori imposizioni sulle proprietà immobiliari.
Anche perché le riforme hanno un costo e alleviare un po' di Irpef sui ceti medi sicuramente imporrà interventi di recupero sulle spese (si spera) o sulle entrate. Nel frattempo, meglio concentrarsi sui 50 milioni di cartelle «bloccate» causa Covid per evitare che si abbattano come un ciclone su settori già piegati dalla crisi.
Ieri Matteo Salvini è tornato a chiedere la pace fiscale. «Ne abbiamo parlato con Draghi, non si tratta di fare regali ai furbetti ma di aiutare a far tornare a lavorare coloro che sono fermi», ha chiosato il leader della Lega.
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