Alla vigilia del Consiglio dei ministri europei dell'Energia che si apre oggi a Bruxelles, il prezzo del gas europeo quotato ad Amsterdam ha toccato i 176 euro al megawattora. Il nuovo picco è il risultato, da un lato, del nuovo annuncio da parte del colosso energetico russo Gazprom di un ulteriore taglio del volume di gas pompato in Nord Stream 1; dall'altro della non facile quadra che i 27 ministri devono trovare su un piano di risparmio. Lo scopo è mettere in sicurezza un'Europa oggi troppo esposta ai capricci del Cremlino.
Ad aprire le danze sono stati i russi: già da giugno Gazprom ha ridotto al 40% la quantità di metano che normalmente vende alla Germania e una parte del quale procede poi verso altri Paesi Ue. Da domani, «per ragioni tecniche», si passa al 20%. A giugno l'azienda russa ha spiegato che il taglio era dovuto al malfunzionamento di una turbina Siemens spedita in Occidente e che non era mai rientrata a causa delle sanzioni. È vero che la turbina era stata recapitata a Siemens Canada per riparazioni ma è altrettanto vero che, cedendo alle pressioni tedesche, ormai da due settimane il governo canadese ha permesso il rientro della macchina motrice. Secondo la Faz, già il 17 luglio la turbina era rientrata da Montreal a Colonia e da allora sarebbero i russi a ostacolare la consegna finale.
L'ulteriore taglio al flusso di metano non ha sorpreso i tedeschi, ormai pienamente consapevoli di essersi legati mani e piedi alle pipeline russe; invece ha messo in agitazione tutta l'Unione. Perché «una crisi del gas colpirebbe ogni singolo Stato membro in una forma o nell'altra», ha affermato alla Dpa la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. La guida dell'esecutivo comunitario sta cercando di convincere i 27 ad accettare un piano di risparmio energetico in cui si chiede a ogni Stato di tagliare i consumi di metano del 15% entro marzo 2023. Già nei giorni scorsi i vecchi Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) ossia i Paesi già additati oltre 15 anni fa come causa dell'instabilità finanziaria nell'Eurozona hanno opposto il loro no a una bozza fatta su misura sui bisogni della Germania. D'altronde, i Pigs hanno saputo trovare nuove fonti di approvvigionamento (Algeria e Israele solo per fare due esempi) né Berlino può invocare quella solidarietà che ai tempi della crisi dell'euro ha lesinato agli stessi Paesi oggi meno dipendenti dagli idrocarburi russi. Ieri ai Pigs si è anche affiancata la Francia con la ministra per la Transizione energetica, Agnès Pannier-Runacher: «Non vogliamo introdurre obiettivi uniformi che non si adatterebbero alla realtà di tutti e che alla fine non avrebbero un impatto sulla nostra capacità di esportare gas verso i nostri vicini».
Così, mentre il gas si impennava ad Amsterdam, a Bruxelles gli sherpa che hanno preparato il Consiglio di oggi hanno inserito deroghe al livello del 15% indicato da von der Leyen e proposto che siano cinque e non più solo tre gli Stati membri che possono richiedere lo stato di allerta energetica, la condizione per far scattare l'obbligo di risparmi. Anche la proposta di un price cap sul metano, indicata da Mario Draghi come risposta ai ricatti russi ma bocciata settimane fa da tedeschi e olandesi, è stata adesso «presa in considerazione», ha confermato von der Leyen.
Mentre Bruxelles discute di gas e Mosca gongola a Berlino è anche ripartito il dibattito sul nucleare.
Per legge, le ultime tre centrali atomiche tedesche ancora in funzione dovrebbero chiudere i battenti entro fine 'anno ma la stampa, l'opposizione (Cdu), come anche i Liberali (Fdp) che sostengono il governo di Olaf Scholz, chiedono una proroga: non è questo il momento di privarsi di altre fonti di energia.
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