Genova, seconda liberazione: "Ancora non ci crediamo"

Il risveglio della città dopo la storica vittoria di Bucci. "La sinistra ci ha traditi, ora è arrivata al capolinea"

Genova, seconda liberazione: "Ancora non ci crediamo"

Non è una grande folla ma è una grande festa. All'una di notte piazza De Ferrari, il cuore della città, ribolle. Selfie. Abbracci. Occhi stropicciati, perché una giornata cosi Genova non l'aveva mai vissuta. «Ancora non ci credo», si ripetono quasi in trance i ragazzi con la maglietta arancione che hanno sostenuto Marco Bucci. «Bucci - scrive Alessandro Cassinis sul Secolo XIX - è il primo sindaco di centrodestra dal dopoguerra a oggi». I giovani e gli anziani che si scambiano sguardi increduli, quasi smarriti, lo sanno e non vogliono perdere quei momenti che passano una volta, una soltanto, in tutta la vita. Un gruppetto lascia la piazza, sfiora il glorioso Carlo Felice, taglia, ironia della sorte, per via XXV Aprile, piomba in municipio a Palazzo Tursi. Venti, trenta mani sorreggono un tricolore lunghissimo. L'interminabile bandierone, lungo più di 20 metri, fruscia elegante davanti al Comune. È quasi una danza liberatoria, mentre decine di persone intonano con il cuore in gola l'inno di Mameli. Poi il corteo entra nel municipio e l'urlo atteso da generazioni sale per gli scaloni: «Genova libera, Genova libera».

Il lungo autunno della città rossa è finito. «A Genova - ricorda il direttore del Secolo XIX Massimo Righi - i tedeschi si arresero ai partigiani e non agli alleati. E a Genova, medaglia d'oro della Resistenza, quindici anni dopo, il 30 giugno 1960, i camalli e gli operai respinsero la provocazione del Msi che voleva tenere il proprio congresso in città. Il governo Tambroni cercò di stroncare la piazza, ci furono incidenti e disordini, ma alla fine fu la piazza a vincere. Anche questa volta Gianni Crivello ha provato a chiamare a raccolta la sinistra per non consegnare la città ai populisti, ma l'appello non ha avuto effetto».

La storia non si ripete e anzi si vendica: questa volta Genova si è liberata dai liberatori del '45 e del '60. Il 25 giugno è il nuovo 25 aprile di una metropoli rinsecchita e illividita. «Sono qui per servire - dice con toni umili, quasi alla Papa Francesco, Bucci - Genova deve tornare ad essere la capitale del Mediterraneo».

Tutti lo vogliono, nessuno ci spera. Questa più che una vittoria del centrodestra è una sconfitta del centrosinistra. L'album di famiglia è strappato all'ultima pagina. La tradizione. Il mito. La lunga galleria dei primi cittadini dal 45 ad oggi: Giovanni Tarello e Gelasio Adamoli, comunisti doc, sulle macerie della guerra. Poi il 2 aprile 1975 ecco Fulvio Cerofolini, tranviere, sindacalista socialista, voluto dal tripartito Pci-Psi-Psdi. L'anno dopo, 1976, il Pci sfiora i 340mila voti e il 41%. L'onda rossa sembra inarrestabile. E a Genova resiste al tempo: dal '93, quando gli elettori scelgono direttamente il sindaco, Genova esprime solo primi cittadini di centrosinistra: Adriano Sansa, Giuseppe Pericu, Marta Vincenzi, Marco Doria. E quando Sansa, l'ambizioso pretore d'assalto, si lamenta perché non vogliono ricandidarlo, il segretario provinciale del Pds Ubaldo Benvenuti lo prende da parte e, almeno secondo la leggenda, spegne le sue obiezioni con poche parole definitive: «Questa è un città dove possiamo prendere il primo camionista che passa per la strada e farlo sindaco».

Un'altra epoca. La remontada di Gianni Crivello si spegne sotto l'asticella del 45%: 44,8 contro il 55,2 dell'avversario. Dopo l'autunno arriva l'inverno. E i cittadini non fanno sconti. A Sampierdarena, storico feudo rosso della rossa Genova, non c'è una persona che renda l'onore delle armi al passato che fugge. Nemmeno chi li ha votati anche questa volta. Giancarlo, medico benestante, entra con il suo labrador al caffè Deja vu, una bomboniera in legno affacciata sui portici di via Cantore: «Il mio cane è arrivato al capolinea, come la sinistra. Io, per coerenza con la mia storia, ho sostenuto Crivello ma sapevo che era un voto buttato. Questa è una storia finita». Simone, tecnico di un'azienda petrolifera, è più immaginifico: «Quando penso alla sinistra mi si attorciglia la lingua».

E Fabio, il barista, è quasi apocalittico: «Sampierdarena era un posto bellissimo. L'hanno distrutto e trasformato in un suk, un accampamento per bande di sudamericani, delinquenti albanesi, zingari che scippano». Via, si volta pagina. Senza celebrare nemmeno il funerale di chi ha tradito una città.

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