Da quando si è insediato il governo di Giorgia Meloni, nove mesi fa, nel mondo della cultura, come in quello dell'economia o della pubblica amministrazione, si è assistito a una serie di nuove nomine e inevitabili avvicendamenti. È qualcosa che accade a ogni cambio di inquilino a Palazzo Chigi, in nome del principio per alcuni magari fastidioso ma molto democratico - secondo cui chi vince le elezioni sceglie i propri uomini (maschile sovraesteso: si intendono anche le donne naturalmente). E lo fa in base a tre elementi, di solito: le competenze, l'appartenenza alla stessa area politica o di pensiero, la fedeltà al leader. Non per forza nello stesso ordine di rilevanza.
Comunque, in corrispondenza con le scadenze naturali dei vari incarichi, settimana dopo settimana, è arrivato il cambio della guardia per tutti: direttore del Salone del Libro, direttori e presidenti di musei, membri di cda e di comitati scientifici, vertici di Fondazioni e Istituti storici e artistici, direttori e conduttori di reti e programmi Rai... E tantissime altre nomine sono all'orizzonte, a partire dal piatto forte, la presidenza della Biennale di Venezia. Un'infornata di poltrone che rallegra i nuovi occupanti e getta nella disperazione i vecchi detentori, i quali per tradizione, anche negli anni del berlusconismo imperante, a causa di un disinteresse totale per la cultura da parte dei politici di Forza Italia, erano sempre personalità organiche o vicine alla sinistra. Giorgia Meloni e i suoi ministri, invece, che bene conoscono l'importanza strategica della cultura nell'agire politico, hanno deciso di ribaltare il tavolo. In quei posti vogliono nomi nuovi. Critici, curatori, scrittori, giornalisti, storici, cineasti che spesso soltanto per il fatto di non essere funzionali alla sinistra diventano sic et simpliciter di destra. Ed ecco accadere una cosa del tutto nuova: una risposta mai vista prima, per quantità dei casi e per qualità della reazione, da parte della vecchia intellighenzia che, spiazzata e incattivita, ha immediatamente scatenato il contrattacco. In due fasi. La prima: erigere il proprio tribunale morale per comminare condanne. La seconda: istituire un plotone d'esecuzione (metaforico) per abbattere i condannati. Esempi delle ultime settimane. Francesco Giubilei, consigliere del ministro Sangiuliano: si è dovuto dimettere perché la Fondazione Tatarella, da lui presieduta, riceve (da anni, ben prima della sua nomina) fondi dal ministero con cui collabora. Formalmente non esiste alcuna incompatibilità, ma ha fatto un passo indietro di fronte all'ondata moralistica che lo ha investito, da sinistra. Alessandro Giuli, presidente del Maxxi, travolto dalle prefiche progressiste e dalle erinni neofemministe a causa di un'intemerata sessista di un suo ospite. Azzoppato, benché incolpevole. Beatrice Venezi, direttore d'orchestra, consigliere per la musica del ministero della Cultura, lasciata in pasto - indifesa - alle tricoteuses nizzarde che l'accusano di essere «neofascista» (sic). Il direttore di Rai News 24 Paolo Petrecca tacciato di fare informazione filogovernativa (come se quella di Telekabul fosse stata obiettiva) e buttato in pasto ai social: senza autodafé non si torna in video. Filippo Facci, in predicato di una striscia giornalistica in Rai, gambizzato professionalmente per via di un articolo offensivo verso una ragazza coinvolta in un presunto caso di stupro. Giulio Base, nuovo direttore artistico del Torino Film Festival: pronti via, tre ore dopo la nomina l'ala sinistra della critica cinematografica di Dagospia rispolvera irridere ut screditare la sua filmografia più leggera, che diventa ovviamente «trash» (che poi, Base, accreditato in quota centrodestra, in realtà è semplicemente un regista non organico alla sinistra). E poi c'è il caso di Alberto Veronesi, altra bacchetta considerata di destra: licenziato dal festival Puccini per la sceneggiata con cui ha scelto di manifestare il proprio dissenso verso l'opera che doveva dirigere. Il maestro ha parlato di vendetta politica. Forse non è vero, ma il dubbio è legittimo.
Ora, nessuno tra i citati è esente da colpe. Errori, passi falsi, gaffe, uscite sbagliate, scelte azzardate. Tutto vero (ma niente di peggio di quanto visto tante volte a sinistra). Sorprende però la scientificità con cui, per tutti loro, appena insediati, sono state approntate le forche caudine della moralità neogiacobina. È come se il vecchio mondo egemone impazzisse di fronte ai nuovi barbari che invadono il suo storico territorio di poltrone, incarichi e rendite di potere, sapendo che nei prossimi anni sarà anche peggio. Da cui la reazione scomposta e rabbiosa.
Come ha detto in via confidenziale un intellettuale vicino al Giornale: «Ho paura di ricevere l'offerta di qualche direzione.
Il tempo di rispondere sì e inizierebbero a razzolare fra vecchi tweet e stralci dei miei pezzi per trovare una battuta sessista, razzista o maschilista, e in un giorno devasterebbero la mia già peraltro mediocre carriera».E a noi è corso un sudore diaccio lungo la schiena.
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