C'è un giudice (donna) a Tel Aviv. Che questo, delicatissimo, «caso Eitan» lo ha vissuto certo da magistrato, ma forse anche da mamma. Magari immedesimandosi, solo per un attimo, in quella giovane madre, Tal, che Eitan Biran, 5 anni, non ha più, perché l'ha persa (morirono anche il papà Amit e il fratellino Tom) nella sciagura della funivia crollata.
Lui, «l'orfano del Mottarone», unico sopravvissuto alla sciagura, affidato alla zia paterna con cui ha convissuto fino all'11 settembre, giorno del rapimento compiuto dal nonno materno, Shmuel Peleg, che con un blitz prelevò il nipotino portandolo in Israele.
Un atto di forza che ha inferto il colpo di grazia al già precario equilibrio tra i due poli familiari impegnati in una guerra senza esclusione di colpi per contendersi l'affidamento di Eitan: da una parte i Peleg (ramo materno, con base a Tel Aviv); dall'altra i Biran (ramo paterno, residente in Italia). Nuclei parentali accomunati dalla fede ebraica, se pur con una differente «intensità» nell'interpretazione più o meno ortodossa della propria dottrina religiosa.
I Peleg volevano per Eitan un'educazione rigorosamente ebraica, i Biran avevano invece iscritto il bimbo a una scuola cattolica; inevitabile lo scontro, arrivato fino all'estrema conseguenza di un rapimento lungo l'asse Pavia-Tel Aviv. E dalla capitale israeliana, dove ancora oggi si trova Eitan, è giunta ieri l'attesa sentenza della giudice Iris Ilutovich Segal che dovrebbe porre fine a questa sconcertante telenovela. Ma il condizionale è d'obbligo considerato che i Peleg già hanno annunciato ricorso alla sentenza che ha disposto la «restituzione» di Eitan alla zia Aya, legittimata ora dalla giustizia israeliana a riportare il nipote in Italia, in quanto «luogo di residenza abituale», come si legge nel dispositivo del verdetto.
La Corte di Tel Aviv che ieri ha formalizzato la decisione ha così riconosciuto l'applicabilità della Convenzione dell'Aia, cioè la normativa internazionale che disciplina il rapimento di un minore in ambito familiare.
«Il Tribunale non ha accolto la tesi del nonno materno secondo il quale Israele è il luogo normale di vita del minore né la tesi che abbia due luoghi di abitazione», così ha scritto la giudice, imponendo il «rientro immediato in Italia» di Eitan. E questo in pieno accoglimento del ricorso di Aya Biran, la zia paterna del piccolo, nonché «tutrice legale» secondo quanto disposto dopo la tragedia del Mottarone dal Tribunale di Torino: lo stesso presso il quale, da settembre, a seguito del rapimento del bimbo, è stato aperto un fascicolo con indagati il nonno materno Shmuel Peleg (più sua moglie e un terzo complice) per sequestro di persona aggravato.
«Pur accogliendo con soddisfazione la sentenza della giudice Ilutovich crediamo che in questo caso non ci siano nè vincitori nè vinti. C'è solo Eitan e tutto quello che chiediamo è che torni presto a casa sua, ai suoi amici a scuola, alla sua famiglia, in particolare per la terapia e gli schemi educativi di cui ha bisogno», il commento dei legali della famiglia di Aya Biran.
«Attraverso un'azione illegittima - si spiega nella sentenza - il nonno di Eitan ha allontanato il minore dal luogo normale di vita: un allontanamento contrario al significato della Convenzione dell'Aia e che ha infranto i diritti di custodia della zia sul minore stesso».
Ma i Peleg (condannati a pagare anche le spese processuali pari a 70 mila shekel, circa 18mila euro) appaiono tutt'altro che rassegnati: «Siamo determinati a continuare la battaglia in ogni modo possibile nell'interesse di Eitan (dicono proprio così: ...
nell'interesse di Eitan ndr)».Insomma, pare proprio non essere finita qui. Per colpa di chi dice di «volergli bene», il povero Eitan è ancora destinato a non trovare pace. Un'assurda crudeltà contro un bambino già tanto segnato dalla sfortuna.
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