Si era detto che Matteo Salvini sarebbe annegato nella maggioranza extra-large di unità nazionale. Fior di politologi, di quelli che capiscono poco e parlano molto, avevano spiegato a Matteo Renzi che sbagliava a voler far fuori Conte perché nel governo del Dragone non avrebbe contato un tubo. E ancora, per stare appresso agli orfani dell'ancien régime amanti dell'uno vale uno, c'era l'equazione teorizzata già all'indomani della nascita del nuovo governo, che Mario è uguale a Giuseppi. Tante congetture, tante previsioni fino a quando il Governo ha deciso nei giorni scorsi di riaprire il Paese a fine aprile, di rilanciare sul tema dei vaccini, di chiedere uno scostamento di bilancio di altri 40 miliardi da immettere nell'economia, non parandosi le spalle con nuove tasse ma scommettendo sulla crescita del Pil, e di far partire 57 opere pubbliche con tanto di commissari. Qualcuno dirà che erano gli stessi cantieri che stava per far partire il governo precedente, ma con Conte, si sa, i fatti si trasformavano in parole, con Draghi, almeno si spera, le parole dovrebbero diventare fatti.
Com'è accaduto? Perché sotto l'ombrello del Governo Draghi si è ritrovata una sorta di alleanza del «pragmatismo» e del «buonsenso» e un premier che ha trovato finalmente il coraggio di affrontare «un rischio ragionato». L'ideologia è rimasta fuori dalla porta, a cominciare da quella propugnata dal ministro Speranza che sognava una nuova «egemonia culturale» della sinistra all'insegna della lotta alla pandemia, a quella che si nascondeva nelle battaglie fuori tempo di Enrico Letta sullo «ius soli» o sul «voto ai sedicenni». Insomma, hanno trovato un raccordo quelle forze che hanno voluto il governo Draghi per riportare la politica con i piedi per terra dalla Lega a Italia Viva, da Forza Italia a Calenda - e hanno tentato di riaprire un canale di comunicazione tra il Palazzo e i problemi di oggi del Paese. L'altro giorno, durante la riunione del Csm, il leghista Giancarlo Giorgetti faceva girare un sms in cui confidava che nella battaglia per riaprire si ritrovava in piena sintonia con le posizioni della ministra Bonetti di Italia Viva. Avrebbe potuto dire la stessa cosa della forzista Mariastella Gelmini, ma sarebbe stato scontato.
Del resto è indubbio che un governo per l'emergenza dovrebbe ritrovarsi sul «pragmatismo» e sul «buonsenso» non certo sulle bandiere, sui vessilli, sulle pseudo ideologie di destra e di sinistra declinate sullo schema «aperturisti» e «rigoristi». Tant'è che mentre il governo andava avanti chi è rimasto fuori dalla porta vedi Giorgia Meloni - si è ritrovato a fare la guardia al bidone della vecchia liturgia della mozione di sfiducia a Speranza, centrando solo il risultato di guadagnargli un posto accanto a Draghi nella conferenza stampa dell'altro ieri: quando si parla di miopia in politica. Senza contare che Speranza che ne avrà combinate tante sul peccato originale, quello su cui indagano i magistrati di Bergamo, ha solo fatto l'errore di assecondare Conte: se fosse stato per lui avrebbe chiuso i comuni di Alzano e Nembro ben prima dell'«ok» dato dal premier, il quale inaugurò nell'occasione la filosofia dello scaricabarile giocando a rimpiattino con la Regione Lombardia e dimenticando che esiste un articolo della Costituzione (l'art. 117) che assegna all'esecutivo il diritto di decidere sulla profilassi internazionale. Quell'errore da pusillanime di Conte ha provocato quella confusione nella catena di comando nella gestione della pandemia che ha condizionato il rapporto con le Regioni fino a Draghi e provocato tanti guai.
Ma a parte ciò, ci vuole poco a capire che è proprio all'ombra delle solidarietà di schieramento e dell'ideologia, che prosperano i sodalizi di Potere («il quadrilatero dalemiano che ha fatto il bello e il cattivo tempo nel Conte due», per riportare l'espressione di uno dei leader della maggioranza), nascono i rapporti poco chiari con la Cina, si importano da Pechino mascherine fasulle e respiratori farlocchi. Sono quelli che guardano ai problemi dell'oggi, con gli occhi rivolti alle alleanze del passato. Ci sono poi quelli che sotto l'ombrello di Draghi si mettono in gioco: Salvini non si stanca di contrapporre da qualche tempo «il pragmatismo» all'«ideologia»; l'espressione che più ricorre sulla bocca di Berlusconi o di Tajani è «buonsenso»; mentre Matteo Renzi, come pure Calenda, le logiche di schieramento le hanno abbandonate da tempo, ragionano solo sui problemi. Si incontrino, si sentano, poco importa, c'è una sorta di affinità che li porta a rifiutare l'ultima ideologia de terza fila apparsa sul mercato italiano, quella del populismo-giustizialista grillino. È un tema su cui dovrebbe riflettere Enrico Letta quando apre alla parte moderata di Forza Italia («non escludo alleanze con Berlusconi», ha detto): le alleanze non si fanno sugli schieramenti, ma sui temi. Non si indossano le casacche degli «aperturisti» e dei «rigoristi» a priori, ma si guarda alle tabelle dei contagi. Come pure sulle «cartelle esattoriali» non si ragiona con gli schemi ideologici pre-Covid, ma ci si confronta sui problemi dell'oggi. E questo vale anche per gli investimenti del Recovery Plan, non si sceglie per conservare un «sistema» che era già in crisi ieri, ma se ne progetta uno nuovo per il domani. Stesso vale sul problema dei problemi in questo Paese, la giustizia: chi se non un governo di unità nazionale può mettere mano a storture che chiedono risposte da decenni? Come si può accettare che si venga processati a Palermo (vedi Salvini) per lo stesso reato su cui la pubblica accusa chiede l'archiviazione a Catania? Siamo alla giustizia «territoriale» determinata dal «colore» di quella procura o di quel tribunale (Palamara docet): come il mugnaio di Potsdam il cittadino si ritrova a sperare «ci sarà pure un giudice a Berlino...».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.