Le dimissioni anticipate da capo dell'Agenzia delle entrate erano già nel conto. Chi ha parlato con lui, nelle ultime settimane, spiega che Ernesto Maria Ruffini aveva intenzione di rinunciare presto al prestigioso ruolo che ha ricoperto dal 2017, quando fu chiamato a ricoprirlo dal governo Gentiloni.
La data cerchiata sul calendario era quella del 13 gennaio (lo stesso giorno in cui, nel 2023, il governo Meloni lo aveva riconfermato per tre anni), subito dopo le feste natalizie. Poi la bagarre esplosa attorno alle indiscrezioni sulla sua possibile discesa in campo politica lo ha costretto all'accelerazione. E Ruffini ha dovuto anticipare le dimissioni, scegliendo di dare al proprio gesto una motivazione politica in polemica con il governo e con chi nel centrodestra parla delle tasse come «pizzo di Stato».
«Non scendo in campo», assicura. Né come animatore di un nuovo centro, né come potenziale «federatore» dell'intero centrosinistra, il solito «papa straniero» preso dalla cosiddetta società civile e proiettato verso Palazzo Chigi. E però lo scopo dell'«operazione Ruffini», bruciata da indiscrezioni e gestione sbagliata dei tempi da parte dei suoi sponsor (in prima fila proprio Romano Prodi, dicono i bene informati) era quello, tutto interno all'area dell'opposizione. E aveva un bersaglio implicito: azzoppare la corsa alla premiership di Elly Schlein. Così il «pasticcio» Ruffini è diventato il primo segnale palese di un disagio assai diffuso verso la leader dem, che va dal centro moderato al cattolicesimo di sinistra, coinvolge parte del mondo vaticano e lambisce persino il Colle. Dove si guarda con qualche preoccupazione alla linea incerta e contraddittoria del Pd schleiniano sulla politica estera. «Almeno Ruffini non porta l'eskimo e non fa discorsi da assemblea del collettivo scuole medie», dice un esponente dem convinto che «con lei candidata premier rivince Meloni». Certezza condivisa da molti - fin qui silenziosi - nel Pd, e da un Prodi che non solo in privato la giudica «inadeguata» al governo, ma che non le perdona di ignorarlo. Tanto più che fu proprio l'ex premier dell'Ulivo a insegnarle i primi passi in politica, in quel di Bologna, e a raccomandarla e promuoverla in tempi non sospetti. Per poi - come è capitato a tutti gli sponsor di Schlein, chiedere a Dario Franceschini - ritrovarsi accantonato, una volta che la segretaria Pd ha raggiunto i suoi scopi.
«Il centrodestra ha sbagliato a aprire il fuoco su Ruffini costringendolo alle dimissioni: se fossero furbi lo avrebbero lasciato fare, facendo scoppiare una guerra dentro il Pd», ragiona un esponente di Azione.
All'affossamento dell'operazione Ruffini ha dato il suo contributo anche l'endorsement dell'immarcescibile Rosy Bindi, subito messa nel mirino da Matteo Renzi: «Ruffini eviti di prendersela come portavoce, così si spaventa l'elettorato moderato». Senza il quale «non si vince», sottolinea il capo di Iv, tanto più vista la crisi verticale del M5s di Giuseppe Conte. Gli aspiranti federatori del centro si moltiplicano: da Ruffini al sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Dario Franceschini pensa all'ex capo della Polizia Franco Gabrielli, Carlo Calenda butta in pista il nome di Paolo Gentiloni. E del caos approfitta Schlein: «Non inseguite la fuffa dei retroscena - ribadivano ieri i suoi fedelissimi - le prossime elezioni saranno Elly contro Giorgia, e basta».
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