Bisogna partire da un dato di fatto: tutte le volte, nessuna esclusa, che le procure della Repubblica hanno cercato di dimostrare il triangolo Berlusconi-Mafia-Stragi ne sono uscite con le ossa rotte. L'ostinazione con cui gli inquirenti di Firenze tornano in questi giorni all'attacco, con la perquisizione della casa e dello studio di Marcello Dell'Utri e con l'invito a comparire - fissato per martedì prossimo - dell'ex senatore azzurro si può spiegare solo con la convinzione che questa sia l'ultima occasione utile. Solo così si capisce come i pm Luca Turco e Luca Tescorali abbiano deciso di andare avanti, a testa bassa, anche dopo la morte di Berlusconi. O adesso, sembrano voler dire, o mai più.
Ad andare a finire in nulla sono state le inchieste siciliane, quelle che sull'onda dei pentiti del dopo-Buscetta (il primo Salvatore Cancemi) andarono per prime a ipotizzare rapporti criminali di cui non venne trovata alcuna prova, e poi quelle successive, il Moloch della trattativa Stato-Mafia, dove Berlusconi non era mai stato formalmente indagato ma proprio per questo, visto che non poteva difendersi, si ritrovò alla mercé dei giudici: leggendarie le motivazioni della sentenza di primo grado, che condannava Dell'Utri e en passant faceva a pezzi il Cavaliere, «perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo» come quello preteso da Cosa Nostra per dire stop alle stragi.
Invece non era vero niente, né le leggi né la trattativa, e alla fine sono stati tutti assolti, compresi i boss mafiosi. Intanto un po' di gente, compresi eroici servitori dello Stato, avevano avuto vita e carriera distrutte, ma amen. Non meglio era andata a Firenze, dove le inchieste sulle tre stragi andate a segno nel 1993 (via Georgofili, via Palestro a Milano, il Velabro a Roma) avevano già una prima volta ipotizzato, sempre sull'onda delle dichiarazioni di Spatuzza e dei suoi emuli, un ruolo di mandanti di Berlusconi e Dell'Utri, ed erano state archiviate. Ora Turco e Tescaroli ci riprovano, con una inchiesta raccontata in diretta sui media, prorogata di sei mesi in sei mesi, ora (si dice) prossima alle conclusioni. Ma di recente hanno dovuto fare i conti anche loro, per la prima volta, con un giudice. Ed è andata malissimo.
È successo quando Berlusconi era già morto da una manciata di giorni, alla fine del mese scorso. Turco e Tescaroli chiedono di arrestare Salvatore Baiardo, quello strano tipo che va in televisione a dire di sapere tutto dei rapporti tra Graviano e Berlusconi, e fa vedere presunte foto di presunti incontri che poi spariscono nel nulla. Nel mirino dei pm sembra esserci Baiardo, ma il vero obiettivo è il Cavaliere: secondo Turco e Tescaroli, tutte le manovre del figuro hanno come obiettivo permettere a Berlusconi e Dell'Utri di sfuggire alle indagini, contestano a Baiardo «l'aggravante di avere agevolato Cosa Nostra interessata a non compromettere le figure di Berlusconi e Dell'Utri, entrambi parti dell'accordo stragista». Ma il giudice che riceve la richiesta la respinge al mittente: l'accordo stragista è una teoria non dimostrata. La Procura non si è arresa e ha fatto ricorso al Riesame, l'udienza è oggi, si vedrà come andrà a finire.
Il problema vero è che ogni volta, per mettere toppe agli strappi di questa tela, tessuta tra le Procure e i loro house organ, bisogna mettere mano alle date, spostare in avanti o indietro i fatti, gli accordi, gli obiettivi che avrebbero generato la stagione delle bombe. Perché se il teorema è che servivano le stragi per aprire la strada a Forza Italia qualcosa non torna, la prima bomba in via dei Georgofili è de 27 maggio 1993, ma basta leggere il libro di un testimone insospettabile come Vittorio Dotti per sapere che di Forza Italia a quella data non c'era neanche il nome.
Così nella nuova versione del teorema tutto si sposta di sei mesi, e si dice che la bomba all'Olimpico era una specie di superspot per il lancio di Forza Italia, «si colloca tre giorni prima dell'annuncio ufficiale di Berlusconi di scendere in campo». Così tutto rimane nella nebbia, nei verbali di pentiti morti che citano le confidenze di altri morti, su un patto in cui non si è mai capito quali siano le leggi che Berlusconi regalò alla mafia.
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