«Hillary se potesse lo investirebbe con la macchina». «È un cafone: non le ha neanche telefonato per congratularsi per la prima donna candidata per la Casa Bianca». E lui, l'arrabbiato Sanders: «Vado avanti e non rompetemi le scatole. Prossimo appuntamento, lo Stato di Washington» (da non confondere con la capitale Washington DC). Ed ecco dunque la sorpresa del giorno: quando ormai Hillary Clinton ha vinto la California e altri Stati incassando in tutto tre milioni e mezzo di voti più di lui, l'ostinato e arrabbiato Bernie abbandona le procedure elettorali e passa a quelle movimentiste e quelle rivoluzionarie: «I voti dei delegati li conteremo a luglio a Filadelfia». Imbarazzo globale. Sanders era ammirevole fino a ieri quando contestava alla Clinton i suoi voti d'apparato contro i suoi che vengono dal popolo. Ma adesso Hillary Clinton l'ha surclassato in California e lui continua imperterrito. Quando lo accusano di essere un maleducato per non essersi complimentato con Hillary, alza le spalle: «Le ho telefonato, ma le ho lasciato un messaggio».
È un romanzo fantastico quello delle elezioni americane di questo 2016. Da destra spunta questo bolide impazzito che è Donald Trump il quale chiama il popolo meno colto alla rivolta con parole sconvenienti e imbarazzanti nel suo stesso partito che è un partito in grisaglia. Dall'altra, quest'altro bolide impazzito e canuto che è Bernie Sanders, ostinato angoloso, scarso di sorriso e che con voce roca annuncia: «Io vado avanti, per me non è finito nulla. La lotta continua». Avanti verso che cosa? Lotta contro chi? Lo sussurra a mezza bocca: «Questo Paese ha bisogno di una rivoluzione. Le elezioni sono un pretesto per un movimento rivoluzionario di massa, fondato sulla ribellione aperta alla politica economica, razziale, morale e ambientale degli Stati Uniti». In mezzo, fra i due bolidi, sta Hillary Clinton che potrebbe a questo punto ritirarsi dalla mischia perché ha già vinto la nomination e non ha alcun interesse a contendere a Sanders un terreno che ha già conquistato. Obama è furioso con Sanders. Avrebbe voluto che riconoscesse la vittoria della Clinton e che facesse una dichiarazione gracious, gentile e affettuosa, per la prima donna nominata candidato ufficiale per la White House. Ma Sanders tutto è fuorché gracious. Non concede nulla a una donna che considera demoniaca, già vista due volte in campo contro Obama, senatrice dello Stato di New York (pur provenendo dal ricco mondo degli uffici legali di Chicago), nominata Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri quasi sempre a destra del presidente che non ha mai voluto saperne di interventi diretti sul terreno, specialmente in Medio Oriente. Lei invece si andò a ficcare nel ginepraio libico e a Bengasi perse il console americano in circostanze torbide e censurabili. Il suo curriculum è corto ma scintillante: First Lady, senatrice, Segretario di Stato, candidata alla Casa Bianca. E Obama la sostiene con tutte le sue forze preparando il suo endorsement formale e intanto rende pubblico il suo disprezzo per il candidato repubblicano cercando di dare una mano alla Clinton in un momento difficile, visto che Hillary secondo i sondaggi più benevoli conduce su The Donald soltanto per due punti: 44 a 42. Dice Obama: «Trump è un pericolo pubblico, non dovete perderlo d'occhio fino al giorno delle elezioni. Non sa la geografia, non conosce la storia e non ha la più pallida idea di dove si trovi la Corea del Nord con cui vuole fare accordi». Hillary rincara: «Non ha neppure il temperamento adatto a fare il Presidente, è uno squilibrato». Trump risponde con rabbia che la Clinton è sotto inchiesta dell'Fbi per un reato che equivale ad alto tradimento e la Clinton gli risponde con una imitazione davanti al suo pubblico adorante: «Oh, io sono il più grande di tutti, adoro parlare soltanto di me, vorrei che l'America fosse come me». Obama è frustrato. Non riesce a mettere in riga Sanders mentre la marcia di Trump non accenna a fermarsi e malgrado la defezione di centinaia di repubblicani eminenti. Ieri Trump ha lanciato accuse infamanti non soltanto contro Hillary, ma anche contro suo marito, l'ex presidente: «Quei due hanno fatto centinaia di milioni di dollari insieme fregando gli americani, ve lo dico io, con un gioco di fondazioni a scatole cinesi per profitti mostruosi».
Mentre scriviamo si attende che Obama riceva Sanders alla Casa Bianca. Fra i due i rapporti sono molto tesi. Obama teme che se il senatore del Vermont non si decide a ritirarsi dalla campagna, una parte dell'elettorato democratico la sinistra giovanile bianca si rifiuterà di votare per Hillary Clinton e potrebbe, per rabbia, perfino votare per Donald Trump. Così assistiamo a vari scambi di linee in rottura con la tradizione: i conservatori repubblicani di destra lasciano l'esercito trumpista e dicono che potrebbero perfino votare la Clinton. Dall'altra parte l'estrema sinistra considera la Clinton un'espressione abominevole del capitalismo finanziario.
La destra minaccia di passare a sinistra e viceversa in un balletto che politicamente non avrebbe senso, se invece non rispecchiasse la frammentazione dell'elettorato, e del popolo, americano al quale i due antichi partiti tradizionali vanno stretti e dai quali non si sentono rappresentati.
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