I conti da regolare passata l'emergenza

I tentennamenti del governo proseguono: professare unità significa restare inermi

I conti da regolare passata l'emergenza

Una guerra casa per casa. Ormai siamo arrivati a questo punto. Per ora sta avvenendo al Nord, ma non è detto che nelle prossime settimane non capiti anche al Sud. Ormai la battaglia è lasciata in mano al senso civico, alla responsabilità, al rigore di ogni singolo cittadino. Il governo si è ritagliato lo stesso ruolo di Radio Londra durante il secondo conflitto mondiale: lancia segnali, consigli, suggerimenti, ma la guerra, nei fatti, la Resistenza, è sulle spalle di ognuno di noi. Non c'è più una linea del fronte, ogni luogo del Paese è potenzialmente a rischio. L'errore è stato quello di non sigillare (un verbo strausato in ogni epidemia del passato, ma che da noi in queste settimane non è mai stato utilizzato) le aree in cui via via il virus si è manifestato in un mese, cioè dai primi morti di Codogno, a oggi: prima dovevano essere chiusi ermeticamente, magari dispiegando la logistica dell'Esercito (altro strumento usato in ogni epidemia meno che da noi), i focolai, quindi, le provincie e infine le regioni. Senza guardare in faccia a nessuno: perché in questa singolare guerra contro l'epidemia, il tempo conta molto più che in una guerra convenzionale. Una misura presa una settimana dopo potrebbe non avere più senso; 24 ore di ritardo nel chiudere una città e una provincia possono rivelarsi fatali.
E, invece, niente. Si sono persi giorni preziosi e si è cambiata strategia più volte. Così i conti si sono fatti sempre più spietati. La Caporetto, la sconfitta peggiore in questa strana guerra contro un nemico invisibile, è stato quello stramaledetto week-end del 7-8 marzo, quando il governo annunciò un decreto per la chiusura della Lombardia che rimase in ballo per 25 ore, provocando però nel frattempo un esodo di massa verso il Sud che ha sparso potenziali contagiati per tutto lo stivale. Ora c'è chi parla di mutazione del virus, o di altro, ma la verità è racchiusa tutta in quell'errore. Trascorse due settimane cioè il tempo della gestazione macabra del virus - da quelle 48 ore di follia, la matematica mortuaria del virus ha presentato il conto: abbiamo superato la Cina in decessi e nelle ultime 72 ore, abbiamo puntualmente segnato ogni giorno un nuovo record di morti quotidiani nelle statistiche dell'epidemia a livello globale: ieri nuovo apice, 793 decessi, per un totale di 4.825. I soliti soloni motivano il tutto con l'alta media anagrafica del nostro Paese. Solo che secondo le statistiche in una nazione ancora più «anziana» della nostra, il Giappone, l'epidemia non ha provocato più di 40 morti. La ragione? Semplice, la tempestività delle decisioni: il premier Shinzo Abe, ad esempio, ha deciso di chiudere le scuole agli inizi di marzo, anche se all'epoca nel Paese erano stati registrati solo 381 contagiati e 6 morti. Per non parlare della Cina che dopo essersi assunta l'onere di sigillare per mesi un'intera regione con 60 milioni di abitanti, da tre giorni non registra più contagi.
Il dato più raccapricciante, però, è che la lezione non è servita. Il nostro premier, esorcizzando i dati, continua a parlare di «modello italiano». A fine gennaio dichiarava, secondo i canoni di un'accurata regia di comunicazione, «siamo prontissimi». Oggi che siamo arrivati a 53mila 578 contagiati, si accorge che mancano posti letto e mascherine. «Questi sono quelli del modello Italia», si morde il labbro Matteo Renzi. Ora sarebbe ingiusto fare di tutto il governo un fascio: il ministro della Sanità, Speranza, ha colto subito la gravità della situazione e ha chiesto misure drastiche fin dall'inizio, inascoltato; la compagine ministeriale grillina, invece, nella sua incompetenza è sparita, si è limitata a porre un «no» ideologico all'ipotesi di nominare un supercommissario competente come Bertolaso, uno dei pochi che avrebbe potuto garantire un'unità d'azione, mentre il premier si è immedesimato nella figura comoda di chi predica prudenza, temporeggiando su ogni decisione. «Misure troppo restrittive continua a ripetere ancora oggi- potrebbero avere effetti contrari». Un ragionamento paradossale, visto che peggio di così è difficile che possa andare.
Così, si continua a traccheggiare, si rinvia l'ipotesi di un altro decreto con provvedimenti più stringenti al 25 marzo, mentre l'esercito, a parte qualche episodio sporadico, continua a restar in caserma, dimenticando, appunto, che le decisioni che non vengono assunte oggi, potrebbero non bastare più domani: se ieri per salvaguardare il resto del Paese si sarebbero potuti creare dei cordoni sanitari rigidi attorno ai focolai grazie ai militari per evitare l'uscita di qualche potenziale contagiato; non è detto che un domani, se i focolai lombardi si moltiplicassero, gli stessi cordoni non debbano essere dispiegati attorno a Milano per evitare che entrino potenziali contagiati.
In quest'emergenza il tempo è tutto. Nel Palazzo, da Berlusconi a Salvini fin dentro il Pd, ripetono, all'insegna dell'unità del Paese di fronte all'emergenza più grave dal dopoguerra, che delle «responsabilità» di questa ecatombe si parlerà «dopo». Ma se bisogna essere uniti, non si può essere inermi: se non si può cambiare governo, il governo, su consiglio (Mattarella) o «motu proprio», deve cambiare una politica che si sta rivelando sbagliata. Discorsi vani. Rimuovendo la drammaticità dei dati, si persiste a dissertare un po' su tutto: sull'impatto psicologico che misure restrittive più drastiche potrebbero avere sull'opinione pubblica; o, ancora, se costituzionalmente è corretto o meno per i parlamentari il voto a distanza o «on line».

Si congettura sul «particulare» senza aver fatto tesoro della tempistica spietata dell'epidemia. Dimenticando quella frase attribuita a Thomas Hobbes ma probabilmente più antica, che è alla base della cultura occidentale: «Primum vivere, deinde philosophari».

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