I cugini presuntuosi e quelle scuse tardive e un po' tirate dopo troppi dispetti

Anni di sgarbi diplomatici ed economici: ora Parigi deve correggere le asimmetrie

I cugini presuntuosi e quelle scuse tardive e un po' tirate dopo troppi dispetti
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Quando c'è da dire «Je m'excuse», i francesi sono in genere come Fonzie: dalla bocca gorgoglia un borborigmo laringofaringeo non sempre comprensibile. Sorprende quindi il «mea culpa» del primo ministro, Michel Barnier, quell'ammettere che «l'Italia è un grande Paese verso cui la Francia è stata spesso negligente» (eufemismo à la française) e perciò da coinvolgere di più ora che la cooperazione franco-tedesca è «sempre più necessaria e sempre più non sufficiente».

«Bien fait, monsieur Barnier», verrebbe da dire. Peccato che il capo cosparso di cenere venga mostrato con colpevolissimo ritardo.

Lo scurdàmmoce o passato è affare complicato quando per anni l'Eliseo, con la complicità di Berlino modello Angela Merkel, ci ha riservato solo strapuntini nei consessi che contano e dopo che, con lavorio machiavellico, Parigi ha finito per imporre una riforma del Patto di stabilità di matrice tedesca all'insegna della solita, e miope, austerità. Un boomerang anche per chi, come la Francia, ha non pochi problemi contabili.

Qualche motivo per dubitare della resipiscenza transalpina è offerto peraltro dall'incontro dello scorso febbraio a Parigi fra Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L'Italia, ancora una volta, tenuta fuori dalla porta. Nè dimentichiamo - giusto a proposito di negligenza politica, diplomatica e perfino umana - il sorrisetto con cui Nicolas Sarkozy, durante il vertice di Cannes del 2011, perculò Silvio Berlusconi in duetto con la signora Merkel.

E che dire, poi, dei rapporti d'affari indirizzati quasi a senso unico, come dimostrano le quasi 290 acquisizioni francesi di aziende italiane, per un controvalore di 20 miliardi di euro, concluse soltanto negli anni che vanno dal 2019 al 2023? Una catena quasi infinita che ha i suoi anelli pregiati nelle operazioni più datate. Come quella che ha portato Parmalat sotto il controllo di Lactalis, nonostante l'azione di sbarramento esercitata col decreto anti-scalate varato dal governo Berlusconi. Oppure Gucci, Fendi e Bulgari finite nel carniere di Kering e di Lvmh, passando per Bnl e CariParma fagocitate rispettivamente da Banque nationale de Paris e Credit Agricole.

Senza omettere Stellantis, che per quanto controllata da Exor ha parlato fin dalla nascita più il francese che l'italiano degli Agnelli attraverso il plenipotenziario Carlos Tavares (espressione dell'Eliseo), bisogna poi mettere in fila anche i take-over falliti (Vivendi su Mediaset) e la battaglia fra Cdp e ancora Vivendi per Tim. Italia come terra di conquista per chi ha il blu nel tricolore, insomma. Quando però Roma ha provato, con Fincantieri, a mettere le mani sui Chantiers de l'Atlantique, ecco che la politica d'Oltralpe si è subita messa di traverso. A dimostrazione di un'evidente asimmetria nei rapporti.

Per quanto il passato pesi come un macigno, e per quanto questa apertura riaccenda speranze verso una Unione che altrimenti appare sempre più debole, resta da capire quale seguito avranno le parole nei confronti dell'Italia pronunciate ieri da Barnier davanti alle confederazioni degli industriali di Francia, Italia e Germania. È vero che in Europa sembra tirare un'aria nuova, ma il problema è un altro.

Il premier francese, un po' paracadutato dall'alto, ha presentato una manovra lacrime e sangue (60 miliardi fra tagli assortiti a pensioni, sanità ed enti locali) che rischia di finire nel tritacarne di un parlamento che, da destra a sinistra, di fatto l'ha già bocciata. Monsieur Austerity rischia così un adieu prematuro. Se finirà fra fra l'esercito dei trombati, potrà sempre rivolgersi a ciascuno di loro come Baudelaire fa con il lettore: «Mon semblable, mon frère!».

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