Tutti zitti, ci sono i ballottaggi. Mentre nei Cinque Stelle va in scena la sanguinosa resa dei conti tra il governativo e filo-atlantico Luigi Di Maio e il perdente «pacifista» (con tanti saluti all'Ucraina) Giuseppe Conte, nel Pd ci si affanna a gettare acqua sul fuoco, invitando al silenzio parlamentari e dirigenti. «Non dobbiamo intervenire nel loro scontro interno, si rischia di esasperare la situazione».
C'è il voto di domenica 26 giugno, che vede Pd e M5s alleati in molte città. E c'è la paura, spiega chi in Parlamento sta seguendo la trattativa sulla risoluzione di maggioranza sulle comunicazioni di Mario Draghi alla vigilia del Consiglio Ue, che la durezza dei giudizi espressi dal ministro degli Esteri sulla ambigua linea di Conte «spinga i contiani a fare pazzie» e a «fare asse con Salvini su posizioni filo-Mosca». In verità, Di Maio è intervenuto anche per evitare che le «pazzie» si compiano, e per avvertire l'ex premier grillino che uno strappo «contro i nostri alleati storici» porterebbe a conseguenze disastrose per l'unità del movimento: mercoledì un gruppo di senatori grillini era pronto a presentare una mozione autonoma per chiedere lo stop agli aiuti all'Ucraina. «Di Maio ha messo Conte con le spalle al muro: ora non può permettersi di indossare i panni dell'anti-atlantista», osserva un senatore dem. Tanto meno mentre Mario Draghi, con la storica missione a Kyev a fianco di Macron e Scholz, dimostra di saper esercitare una leadership europea e allineare gli alleati Ue sul sostegno fermo a Zelensky e sull'ingresso dell'Ucraina in Europa. E infatti Conte, con sprezzo del ridicolo, si è precipitato ad attribuirsi il merito di un viaggio «auspicato da noi M5s», mentre Enrico Letta auspica che il Parlamento si limiti ad approvare una risoluzione che dica «semplicemente che si sostiene l'iniziativa del premier».
Eppure il Pd non riesce a dire una parola chiara sulle convulsioni interne dei Cinque Stelle, né a prendere le distanze dalle posizioni dell'ala contiana. Lasciando che sia Di Maio a dire ciò che il Nazareno non riesce a dire, in attesa di capire se il movimento imploderà o meno. La ragione di tanta prudenza non è facilmente comprensibile: «Anche perché - nota il parlamentare siciliano Fausto Raciti - alle amministrative la scarsa presenza elettorale di M5s si è rivelata un problema: nel centrodestra i voti si spostano da un partito all'altro, nel nostro caso no». Insomma: i 5S non prendono e non portano voti al centrosinistra, e nei ballottaggi saranno ininfluenti quanto al primo turno. Ad esporsi sono in pochi: «Con il M5s di cui parla Di Maio, europeista, atlantista e filo-Draghi, farei subito un'alleanza», dice Andrea Marcucci. Il Nazareno invece resta in mezzo al guado: in privato tutti danno ragione a Di Maio, in pubblico si continuano a usare i guanti di velluto con Conte. Un episodio solo apparentemente minore lo dimostra: lunedì, a Strasburgo, il Pd voterà sì all'ingresso della delegazione 5s (di cui fa parte anche il filo-Putin Gianluca Ferrara) nel gruppo socialista all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Una adesione sponsorizzata da Piero Fassino e benedetta da Roma, nonostante nello stesso Pd si siano levate forti obiezioni: «Ma come, li facciamo entrare nel nostro gruppo proprio mentre quelli minacciano di rompere con Draghi sull'Ucraina e prendono posizioni simili a Salvini sulla Russia?».
Senza contare, temono in molti, che la decisione costituirebbe un precedente per il ben più significativo ingresso nel gruppo Pse del Parlamento europeo, che i grillini inseguono da mesi e che finora il Pd ha congelato: «Se gli diciamo di sì a Strasburgo, poi come possiamo continuare a dire no a Bruxelles?», si chiedono i contrari.
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