I rapporti Cairo-Tel Aviv sull'orlo della rottura. Accordi di pace a rischio

Dopo l'incidente accuse e sospetti. Il raid su Rafah può far precipitare tutto

I rapporti Cairo-Tel Aviv sull'orlo della rottura. Accordi di pace a rischio
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L'uccisione di un soldato egiziano durante lo scontro a fuoco con un'unità israeliana scoppiato ieri al valico di Rafah rischia di rivelarsi la punta di un iceberg pronto a travolgere i già traballanti accordi di pace firmati a Camp David nel lontano 1978. L'eventualità rappresenterebbe un autentico disastro politico e diplomatico. Quegli accordi sono, infatti, le fondamenta del processo di normalizzazione che ha riavvicinato Israele e paesi arabi moderati. Ma l'intervento israeliano a Gaza ha seriamente compromesso i rapporti tra il governo di Bibi Netanyahu e quello del presidente Abd el-Fattah Sisi, portando i due paesi a un passo dalla rottura. All'origine della crisi vi sono reciproci sospetti e accuse.

Secondo alcune indiscrezioni lasciate filtrare da Israele, l'esercito e l'intelligence del Cairo avrebbero chiuso entrambi gli occhi sui traffici di armi che - grazie ai tunnel scavati sotto il confine di Rafah - hanno consentito ad Hamas di armarsi e pianificare le stragi del 7 ottobre. Dall'altra il presidente Al Sisi si fida assai poco delle smentite di un Netanyahu accusato di concedere un surrettizio assenso ai piani delle destre più estremiste decise a trasferire nel Sinai egiziano una parte della popolazione palestinese di Gaza. E a tutto ciò s'aggiunge la mancanza di accordi sul futuro del cosiddetto «corridoio Filadelfia» la fascia di confine demilitarizzata, oggi controllata dall'Egitto che separa, come previsto dagli accordi di Camp David, la Striscia dal Sinai egiziano.

Ma partiamo dai sospetti di Israele. Il 17 maggio il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato, durante una telefonata con l'omologo americano Lloyd Austin, la scoperta intorno a Rafah di almeno 700 pozzi collegati a una cinquantina di tunnel collegati con il territorio egiziano. Da quei tunnel sarebbero passate negli anni le armi, le munizioni e forniture che hanno consentito ad Hamas di trasformarsi in un vero e proprio esercito. Dietro la rivelazione si nasconde un'evidente stoccata ad Al Sisi, colpevole di aver chiuso un occhio sui traffici di Hamas per evitare che il gruppo, nato nel 1987 da una costola della Fratellanza Musulmana egiziana, collabori con quest'ultima per destabilizzare il Sinai e il resto del paese. Ma dall'altra parte Al Sisi, salito al potere grazie a un colpo di stato seguito da una spietata campagna di repressione della Fratellanza Musulmana, guarda con comprensibile timore all'eventuale trasmigrazione nel Sinai di centinaia di migliaia di palestinesi provenienti dai territori Hamas. E a renderlo ancor più inquieto contribuiscono le dichiarazioni di Netanyahu, pronto a rivendicare il controllo della fascia smilitarizzata che divide Rafah dal Sinai. «Il Corridoio di Filadelfia - ha dichiarato a dicembre il premier israeliano - deve essere nelle nostre mani perché ogni altra soluzione non assicurerà il tipo di smilitarizzazione di cui abbiamo bisogno». Ma per gli accordi di Camp David, di cui gli Stati Uniti sono garanti, il corridoio di Filadelfia è una fascia smilitarizzata affidata al controllo egiziano sin dal ritiro israeliano da Gaza del 2005. Per il Cairo un eventuale tentativo di sottrargli la gestione di quella fascia rappresenta una «linea rossa» capace di far saltare tutte le altre intese siglate a Camp David.

E proprio questa determinazione potrebbe essere all'origine del sanguinoso scontro di ieri. Uno scontro che segnala come la crisi di Gaza e l'avanzata su Rafah rischino di far crollare la già precaria impalcatura su cui si reggono gli accordi di pace mediorientali.

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