Washington - Alla fine, anche Mitch McConnell ha dovuto cedere. Il potente leader della minoranza repubblicana al Senato, dopo un'intera giornata nella quale aveva evitato di pronunciarsi sulla perquisizione dell'Fbi nel resort di Mar-a-Lago, si è dovuto piegare alla narrativa imposta da Donald Trump, unendosi ai cori di sdegno che giungevano dal partito. «Il Paese merita un'approfondita e immediata spiegazione», ha detto McConnell, senza però mai nominare il nome dell'ex presidente. Lo stesso ha detto l'ex vice presidente Mike Pence, che secondo Trump «meritava di essere impiccato» dalla folla che assaltò Capitol Hill, perché si era rifiutato di violare la Costituzione e annullare il voto del 2020. McConnell e Pence sono (erano) forse gli oppositori di Trump più influenti all'interno del Partito repubblicano. La loro resa è il segnale eloquente che il «Grand Old Party», in questa fase della sua storia, è quasi del tutto ridotto al ruolo di semplice comitato elettorale per la ormai quasi certa ricandidatura di Trump alla Casa Bianca.
Nemmeno l'ultimissimo episodio della sitcom «Trump contro tutti», vale a dire il rifiuto dell'ex presidente di rispondere alle domande dei magistrati di New York che indagano sui suoi affari, con tanto di appello al Quinto Emendamento, alla stregua di un bancarottiere qualunque, sembra instillare dubbi. I repubblicani sono con Trump e col suo movimento «Maga» (Make America Great Again). L'orizzonte ultimo sono le presidenziali del 2024, nelle quali l'ex tycoon vuole giocarsi la rivincita, incurante delle mille grane giudiziarie. Nel mezzo, ci sono le elezioni di medio termine di novembre, precedute dalla lunga liturgia delle primarie che si concluderà nelle prossime settimane. A conferma dell'umore complessivo dell'elettorato del partito, un dato su tutti: dei 10 deputati che nel 2021 votarono per l'impeachment di Trump dopo l'assalto al Congresso, finora 7 sono stati bocciati, sconfitti da candidati sostenuti dall'ex presidente. Nel complesso, i candidati trumpiani nelle primarie hanno prevalso sui rivali di partito più moderati. La vittima più illustre di questa epurazione interna potrebbe essere Liz Cheney, che il 16 agosto si presenterà davanti agli elettori repubblicani del Wyoming per chiedere la nomination. La figlia dell'ex vice presidente Dick, il «falco» dell'amministrazione di George W. Bush, rischia una pesante uscita di scena, nonostante gli spot elettorali nei quali il padre definisce Trump «la più grande minaccia nella storia della nostra Repubblica». La «colpa» di Liz Cheney è quella di essersi schierata apertamente contro Trump e di essere vice presidente della Commissione della Camera che punta a dimostrare le responsabilità dell'ex presidente nella tentata insurrezione del 6 gennaio del 2021.
Quel clima da «guerra civile» è nuovamente evocato in queste ore sul web e sui social media dai tanti account pro Trump. L'Fbi ha fatto sapere di avere alzato la soglia di attenzione. Un altro segnale del vantaggio politico acquisito da Trump dopo la perquisizione degli agenti federali nel suo resort in Florida è l'insolita uscita di Joe Biden.
Il presidente, che attraverso la sua portavoce ha ribadito più volte di non essere stato avvertito in anticipo del blitz dell'Fbi nella residenza di Trump, ha usato il proprio account Twitter privato per un attacco politico. La scelta, ha detto Biden, è tra «l'ultra destra repubblicana, che attacca le nostre libertà, e i Democratici che lottano per difenderle».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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