I giovani laureati non accettano lavori al di sotto di un salario mensile pari a 1250 euro (netto da tasse e oneri). Come dar loro torto ? Non c'è da meravigliarsi se tanti giovani laureati emigrano all'estero. Da tempo si dibatte, sia sui giornali che a livello accademico, del problema del livello basso dei salari italiani, che diventa ancora più grave quando ci si riferisce al salario di ingresso nel mercato. Quali sono le ragioni di una stagnazione salariale così grave? Le spiegazioni sono molteplici, ma la più convincente riguarda la bassa produttività. L'Italia si trova intrappolata nell'effetto di «Balassa-Samuelson», dal nome degli economisti che per primi hanno evidenziato questo fenomeno: il Paese con elevata produttività nel settore dei beni all'esportazione, si avvantaggia di un maggiore livello di salario, anche per i settori non esposti alla concorrenza internazionale. In altre parole, se nel paese A la produttività è maggiore che nel paese B, non solo i lavoratori dei settori che esportano godranno di maggiori salari rispetto al paese B, ma anche quelli che sono impiegati in settori che producono beni «non-tradables», ovvero i servizi. Ecco spiegato perché medici, infermieri, professori (universitari e non), ecc. guadagnano molto meno che nel resto d'Europa.
La produttività del lavoro dipende da tanti fattori: la fiscalità, gli oneri pensionistici, il grado di efficienza dei processi produttivi e il grado di innovazione tecnologica. La specializzazione produttiva dell'Italia si è gradualmente evoluta verso settori a basso tasso di innovazione tecnologica. Esistono eccezioni a questo, ma in termini relativi sul totale delle esportazioni, pesano meno. In più, da qualche tempo a questa parte, molte più imprese esportano nell'area dell'Euro semilavorati, a differenza che nel passato quando il ciclo del prodotto avveniva tutto in Italia. Un'altra spiegazione però, va ricercata nella contrattazione collettiva.
I contratti nazionali di lavoro coprono una parte molto rilevante del salario e permettono una scarsa libertà di aggiustamento per la parte variabile, che tenga conto anche dei divari territoriali.
La contrattazione collettiva non è estranea alla compressione salariale, e crea disuguaglianze importanti all'interno del paese, generando un legame inverso tra salario reale e produttività. Il divario di produttività Nord-Sud, combinato con la contrattazione collettiva ha favorito in modo importante la compressione salariale, molto di più che in Germania, ad esempio, con riguardo al divario Germania Est-Ovest. Se il salario nominale è vincolato da contratti nazionali rigidi, le differenze tra salari reali e i costi abitativi risultano essere molto marcati tra aree con diversi gradi di produttività. In Italia, infatti, si ha un legame negativo tra salario reale e produttività locale, cosa che non dovrebbe mai accadere: dato il salario nominale eguale a livello nazionale, è più conveniente vivere dove il costo della vita è inferiore (al Sud), ma la probabilità di avere un lavoro è più alta dove la produttività (e il costo della vita, ahinoi) sono maggiori (al Nord). E da qui vediamo che il salario reale è in relazione inversa con la produttività: se il salario nominale non può seguire la produttività, al Nord il salario reale è inferiore che al Sud.
L'inserimento di un maggiore grado di aggiustamenti nel salario nominale in funzione
del costo della vita e della produttività locale, renderebbe il salario reale più in linea con la produttività, disancorando il sistema dalla stagnazione salariale. Certo non è l'unica soluzione possibile, ma è un inizio.
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