I sindaci non hanno alibi la loro scelta è politica

La Confcommercio ha ragione. È insensato, per chi ha un minimo di credenza nell'economia di mercato, con una componente sociale, come motore dello sviluppo economico, aumentare la Tari sulle imprese

I sindaci non hanno alibi la loro scelta è politica

La Confcommercio ha ragione. È insensato, per chi ha un minimo di credenza nell'economia di mercato, con una componente sociale, come motore dello sviluppo economico, aumentare la Tari sulle imprese, quando è diminuita la loro capacità contributiva ed esse rischiano di non sopravvivere. O già sono in dissesto e si dovrebbe evitare di dare loro la botta finale.

I comuni che aumentano le tasse, quando l'attività delle imprese è diminuita a causa del Covid, invece che attuare una politica tributaria che con i pubblici servizi, come quello del ritiro e smaltimento dei rifiuti, dovrebbero esser sussidiaria al mercato, sono ostili al mercato. In particolare gli amministratori dei comuni che hanno lo sviluppo del settore terziario come vanto, agendo così, vanno contro la regola del Buon governo di medio e lungo termine della città, nell'interesse della cittadinanza, che lo ha eletti. Vanno anche contro la regola del «buon pastore», che dovrebbe guidare la politica tributaria, la quale dice che «bisogna tosare e mungere il gregge senza distruggere il suo vello e inaridire le sue mammelle».

Gli amministratori pubblici che aumentano la Tari quando diminuisce la capacità contributiva, replicano che, secondo la legge vigente, si tratta di una tassa per costo del servizio pubblico, che essi possono variare fra un massimo e un minimo, per tenere conto della capacità contributiva, con un prezzo politico, che essi hanno la facoltà, ma non l'obbligo di praticare. Pertanto, se hanno bisogno di soldi, perché il gettito dei tributi e dei prezzi delle loro imprese di mercato è sceso troppo, sono costretti a non fare più il prezzo politico, se ciò genera un deficit nel bilancio di parte corrente, che per legge, deve esser in pareggio.

Dal punto di vista della costituzione fiscale a me sembra che questa tesi sia errata, perché i tributi e ogni altra entrata, secondo l'articolo 53 della Costituzione, sono basati sulla regola del primo comma, che dice: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva». La Tari essendo una tassa, cioè un tributo, che serve a concorrere alle spese pubbliche, rientra nell'articolo 53. Certo, i comuni, per legge, devono coprire le spese correnti con entrate effettive. Possono fare debiti, solo per investimenti. L'amministratore che non aumenta la Tari, e va in deficit formalmente, sembra che violi la legge. Ma in realtà, non la viola, se il deficit è dovuto a causa di forza maggiore. Se c'è un terremoto, una pandemia distruttiva del terziario, non ha né colpa né dolo se il bilancio va in deficit. Sicché la sua scelta è politica.

E alla protesta della Confcommercio, l'amministratore pubblico che ha a cuore il Buon governo della città, non può fare spallucce, se intende esser a favore delle imprese. Neppure dovrebbe farlo, se segue la regola tributaria del buon pastore e non il fiscalismo. O se, come Ponzio Pilato, si lava le mani.

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