"Imitate le Birkenstock, non sono arte"

Il tribunale tedesco gela la famosa azienda: niente copyright, i sandali sono replicabili

"Imitate le Birkenstock, non sono arte"
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Sarà che noi ce li ricordiamo perfettamente quando hanno fatto il loro esordio sul mercato. E lungi dal mancare di rispetto a Johann Adam Birkenstock che nel lontanissimo 1774 si iscrisse al registro dei calzolai di Langen-Bergheim, in Assia, iniziando la storia di un plantare che via via si è andato perfezionando per la comodità assoluta, ma siamo onesti, la prima volta che li abbiamo visti, calzati su pedalini bianchi o color flanella o azzurro polvere, attaccati a piedi tedeschi l'unica cosa che abbiamo pensato è stata: orrendi.

E francamente, 251 anni dopo, manco i modelli in vernice dalle tonalità glamour, i prezzi lievitati (di norma invoglianti per qualunque parvenu), il fatto che il marchio sia stato acquistato dal guru del lusso Bernard Arnault e il contributo dato dal film cult Barbie ci hanno dissuasi dal fatto che le Birkenstock sono dei sandali incomprensibilmente e irrimediabilmente brutti. Su uomini, donne e bambini. Una delle poche cose al mondo che ci potrebbe dissuadere dal saltare addosso a Ryan Gosling qualora ne calzasse un paio. Che fossero un tantino imbarazzanti, praticamente se lo sentì dire in faccia anche l'imprenditore altoatesino Ewald Pitschl che con la tipica ostinazione che arieggia le menti a quelle latitudini, nel 1977, partì da Bolzano, arrivò alla fiera del benessere di Bologna e coraggiosamente presentò quel primo paio di Birkenstock che all'epoca avevano ancora solo l'unica velleità di essere comode. Nemmeno in quanto confortevoli e anatomiche gliele fecero «passare». Pietà! Siamo in Italia... fu il senso della risposta degli ortopedici nostrani. Ovviamente Pitschl perseverò, manco avesse avuto le orecchie rivestite di Edelweiss dinnanzi alle obiezioni italiche, tornò a casa e aprì il primo negozio di scarpe brutte e nel giro di dieci anni, con la sua NaturalLook srl, diventò l'esempio numero uno di distribuzione di sandali Birkenstock nel Paese.

E da allora, tra tigna, perfezionamenti e riposizionamenti i tedeschi e i loro sandali hanno fatto, inspiegabilmente, un sacco di strada. Sdoganate nei film, sulle passerelle, ai piedi smaltati delle star, non sono riuscite però ad ottenere, lo status di «opera d'arte» (per negarglielo sarebbe bastato un esteta). Di ieri, infatti, la decisione della corte federale di cassazione tedesca: i famosi sandali Birkenstock non sono protetti dal diritto d'autore, non si tratta, cioè, di un'opera d'arte da tutelare con norme specifiche e altre aziende concorrenti possono di conseguenza riprodurre i sandali. In contrasto con questa tesi, la Birkenstock aveva fatto causa a tre diverse aziende produttrici di calzature e il processo aveva avuto un lungo corso: la Birkenstock si era vista negata la sua richiesta di «protezione» dei sandali come opera dell'ingegno da tutelare. Ora l'azienda tedesca ha annunciato di voler intentare cause simili anche in altri Paesi - l'Italia, la Francia e l'Olanda - e di voler ricorrere anche alla Corte di giustizia dell'Ue.

Queste bizzarre, «primitive» calzature sono passate dall'essere nascoste con imbarazzo nella cesta delle cose da spiaggia a essere un possibile oggetto di tutela per la loro linea irreplicabile: che parabola affascinante, in grado di definire più chi le indossa che le scarpe stesse. Come se poi a questo mondo non fosse già stato copiato tutto. Che poi tanto, o sei l'originale, o non sei niente.

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