In Israele, è un classico, ogni tassista è un primo ministro, la discussione è appassionata: la paura non è di moda nemmeno presso i bambini, l'Iran attaccherà di certo, si dice, ma come, quando, con gli Hezbollah o da solo. Tutti sono d'accordo sul fatto che per gli Ayatollah si tratta di un attacco necessario per preservare l'onore. Qui comincia la discussione: sarà cauto, impaurito dall'abilità prodigiosa di Israele nei due attacchi a Beirut e a Teheran? Sarà feroce? Colpirà strutture o personalità militari perché colpire i civili susciterà una guerra definitiva? Colpirà brevemente per non chiamare in campo gli americani che sono già sulla strada, o comincia un nuovo scontro senza fine? Chiamerà alla lotta tutti gli alleati, palestinesi, Hezbollah, siriani, iracheni, Houty yemeniti e in generale, tutte le forze dell'islamismo messianico terrorista? A Gerusalemme il capo di stato maggiore e Netanyahu rassicurano sulla capacità di affrontare ogni scenario, ma il volto è serio, niente sbruffonate; i giornalisti tartassano i politici, le riserve di questo piccolo Paese sono già da 300 giorni spremute sui due fronti dalla guerra più lunga della storia d'Israele. Le munizioni, chissà! Dipendono in parte dagli Usa eppure Israele nelle ore di attesa ha di nuovo trovato quell'unità che le ha consentito di vincere tutte le guerre. La strategia si è definita. La complessità, la tragedia, l'aggressione omicida che torturano Israele, adesso hanno un nome solo: Iran. I due attacchi in due capitali nel giro di 7 ore hanno da una parte regolato i conti col più forte fra i valvassori degli ayatollah che aveva fatto strage di dodici bambini israeliani drusi sul Golan, e poi hanno ucciso un capo terrorista che da decenni era, come si dice qui «ben mavet», destinato alla morte per il suo incessante lavorio omicida antisemita. E dove è stato colpito, e quando? Il fulmine è stato scagliato subito dopo quello su Shukr, li ha messi insieme: due massacratori la cui attività era legata allo schieramento mondiale per la distruzione di Israele, capeggiato da Teheran. L'occasione si è creata in un momento di unità antisraeliana e antioccidentale. Così ha rivelato la fragilità di un regime tronfio d'odio che si vanta delle sue armi e allude all'alleanza con la Russia e al potere nucleare. Adesso, l'incapacità nel proteggere Hanyeh ricorda la nebbia in cui si sono cercati per 15 ore i rottami del vecchio elicottero nel cui collasso ha trovato la morte il presidente Raisi; e poi l'attacco israeliano a Damasco in cui è stato eliminato il generale Mohamemd Reza Zahedi.
Da qui poi, la vendetta del 13 aprile con 350 missili anche balistici: ma il sistema di difesa di Israele e le sue forze aeree sono state capaci di uscire quasi indenni dall'attacco. Anche paesi arabi sunniti hanno partecipato alla difesa di Israele, e di certo questo al momento non è un tema assente dal tavolo di Netanyahu. Impossibile dire se l'attacco che l'Iran prepara sarà congiunto con Hezbollah, che negli anni è stato dotato dall'Iran stesso di centinaia di migliaia di missili. Di certo Israele sembra aver ritrovato la sua indomita capacità di combattere. Anche la morte di Mohammed Deif sgombra il campo per un maggiore sforzo verso nord, anche se la guerra a Gaza non è finita. Proprio perché i due attacchi di Beirut e Teheran hanno cercato un'espressione chiara in cui c'è deterrenza ma non dichiarazione di guerra totale, gli Usa hanno finalmente voglia di guardare in faccia la Medusa senza restarne impietriti. Con l'Iran gli Stati Uniti hanno fatto ogni possibile zig zag.
Adesso, Teheran ha mostrato una vulnerabilità proibita: il regime, scrive l'orientalista Harold Rhode, non può permettersi di non intervenire, perché il popolo non spera altro che di riprendere la rivoluzione per rovesciarlo. Il 14 aprile, apparvero sulle mura graffiti che chiedevano a Israele di bombardare il regime, e di lasciare al popolo il resto. Per ora, Israele pulisce i propri rifugi e li fornisce di acqua e scatolette.
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