"In Iran dittatura bugiarda. Ma il mio popolo in lotta ha smesso di avere paura"

La scrittrice oggi vive negli Usa: "Sono piena di speranza, i giovano vogliono un futuro diverso"

"In Iran dittatura bugiarda. Ma il mio popolo in lotta ha smesso di avere paura"

I romanzi di Azar Nafisi sono pieni di dolore e nostalgia, sono spiritosi, ricchi di fantasia e terribili per ogni regime repressivo. Anche lei grandissima scrittrice iraniana nel 1997 è fuggita dal suo amato Paese, l'Iran, verso gli Stati Uniti. Ma incancellabili sono gli anni a Teheran. I bazar, i giardini, i caffè, le strade piene di gente. Il testamento letterario della Nafisi è il bestseller Leggere Lolita a Teheran. Questo capolavoro nasce quando nel 1995, lei non può più continuare a fare le sue lezioni a causa delle critiche delle autorità, così decide di licenziarsi dall'università ed invita sette delle sue migliori studentesse ogni giovedì mattina a casa sua. Insieme analizzeranno le opere più controverse e censurate dal regime: Lolita, Il grande Gatsby e autori come Henry James e Jane Austen. Anche oggi le strade e i campus in Iran sono teatro di violenze indicibili e la storia di questo grande popolo sembra ripetersi. Nafisi ci risponde al telefono con la sua voce piena di calore e generosità.

Perché la letteratura è un pericolo per ogni regime?

«Le dimostrazioni in Iran hanno avuto un enorme impatto nel mondo. Sono state un duro colpo al regime totalitario iraniano. Io sono molto arrabbiata: giovani stanno morendo, anche bambini di 10 anni. Ma sono piena di speranza perché le persone non hanno più paura, ma è il regime che ha paura di loro. Il regime non riesce più a comunicare, e lo fa solo con la violenza e le armi. Le donne che scendono in strada invece usano il loro corpo in modo politico, in maniera simbolica».

Le ragazze iraniane che hanno smesso di avere paura della morte sono simili alle sue studentesse di «Leggere Lolita a Teheran»?

«Sì sono simili, ma oggi non sono solo sovversive nelle loro case, ma anche fuori, nel pubblico. I giovani sono consapevoli che non hanno alcun futuro in questa dittatura e vogliono cambiarla per avere una vita diversa».

È l'immaginazione il motore che li anima?

«La Repubblica islamica è spaventata da chi ha immaginazione. Ogni totalitarismo è contro la verità, crea solo illusioni e bugie. I libri sono banditi perché sono sovversivi. Poeti, scrittori, giornalisti, artisti, registi, sono in prigione, sono stati ammazzati. Anche chi rimane in silenzio è complice del regime. Si uccide qualcuno quando se ne ha paura».

Una società che proibisce dei libri, perché lo fa?

«Perché vuole impedire alle persone di immaginare, di avere idee, pensare, sognare. Più i libri sono proibiti però, più accresce la voglia di leggerli».

Prova nostalgia e dolore ripensando al suo Paese, come ha scritto in «Le cose che non ho detto»?

«Io provo dolore quando ripenso al momento in cui lasciai Teheran per Washington. Fu un'esperienza molto triste. E mi mancano molte cose del mio Paese. Le montagne innevate di Teheran, le persone. Ma ho portato con me i miei libri, i miei poeti. Quando andai in Gran Bretagna a 13 anni realizzai che non si possono portare tutte le cose materiali».

Trova che ci siano dei limiti nelle società occidentali?

«Le persone in Occidente a volte dimenticano che la libertà si ottiene combattendo, è una conquista. Per la libertà le persone vanno in prigione, muoiono. C'è una certa atrofia dei sentimenti. Saul Bellow in una sua citazione si chiede come coloro che sono sopravvissuti al calvario dell'Olocausto sopravviveranno al calvario della libertà».

Esiste per lei un valore superiore alla libertà?

«La capacità di essere giusti e di rispettare gli altri».

Perché bisogna aggiungere alla lista dei diritti umani anche il «diritto all'immaginazione»?

«Ci sono due caratteristiche importanti nell'uomo.

La curiosità e l'empatia, che in letteratura significa mettersi sempre nei panni dell'altro. Senza immaginazione non possiamo connetterci con gli altri. È l'immaginazione che ci rende umani. E senza immaginazione non ci sarebbe la musica dei giovani iraniani».

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