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Israele punta Rafah con il "nì" di Biden

Sì dagli Usa all'offensiva ma non "su larga scala", proteggendo i civili e garantendo gli aiuti

Israele punta Rafah con il "nì" di Biden
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Doppio messaggio dagli Stati Uniti, mentre la guerra va avanti. Rafah no, aveva sempre detto l'amministrazione americana, adesso degli «ufficiali» riportano che la Casa Bianca sosterrà «una operazione a Rafah che prenda di mira obiettivi di Hamas di alto valore sopra e sotto la città evitando un'operazione su larga scala». Il presidente degli Stati Uniti si è preso molta cura nei giorni scorsi di dimostrare alla sua opinione pubblica, perplessa sul voto del prossimo novembre, che il rapporto con Netanyahu è freddo a causa della grande crisi umanitaria a Gaza e l'alto numero delle vittime.

Biden, che aiuta Israele con generosità fino dall'atroce attacco del 7 ottobre, dopo cinque mesi ha scelto la polemica con Netanyahu. Un classico per gli Usa: ai tempi di Ben Gurion, della Guerra dei 6 Giorni, di Golda Meir, Israele ha attraversato stretti ponti di quasi rottura. Ma per l'importanza strategica fondamentale che costituisce per i due un'alleanza sincera, basata sul concetto di democrazia, non è mai andato fino in fondo. Biden sa che Israele ha bisogno di lui, ma non abbandonerà la sua guerra di difesa fondamentale: quindi ha usato il drammatico concetto di «linea rossa» su Rafah, addirittura ha definito Netanyahu «una persona cattiva», tre volte ha ripetuto che «deve» occuparsi della salvaguardia dei palestinesi, ha utilizzato numeri non verificati, ha definito il premier israeliano «più una disgrazia che una fortuna» per il suo popolo. Durante il discorso sullo Stato dell'Unione si è scordato di condannare Hamas, e invece ha minacciato Israele di sospendere l'insostituibile aiuto.

La sua posizione ha avuto ieri un seguito davvero irrituale quando un importante figura del Senato, il leader della maggioranza Chuck Schumer, ha esortato Israele a tenere nuove elezioni, sostenendo che «Netanyahu non soddisfa i bisogni di Israele».

Ma c'è anche un chiaro contraltare: anche gli Usa sembrano essersi resi conto della inutilità di seguitare a chiedere a Israele, dove tutti, da destra a sinistra (il 74% della popolazione lo vuole) sono uniti sulla necessità di spazzare via da Rafah gli ultimi quattro battaglioni di Hamas e la leadership che vi è rintanata, costringendola a restituire gli ostaggi. Inoltre, il 90% della Knesset ha votato con Netanyahu contro l'idea di uno Stato palestinese stabilito unilateralmente, mentre è aperta alla trattativa unita alla deradicalizzazione. Di fatto, l'89% dei palestinesi chiede un governo con Hamas necessario per tutta la Palestina di domani, a Mosca sotto il patrocinio di Putin Fatah e Hamas hanno stretto un accordo. Biden questo lo sa. È molto difficile immaginare che anche se Abu Mazen promette un governo tecnico, questo garantirà che voglia un futuro pacifico.

Martedì, dopo la «linea rossa» del weekend di Biden, il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, ha detto che il presidente non ha stabilito linee, che non potrà sostenere «un'operazione che non protegge i civili a Rafah e che taglia le arterie di assistenza». Dunque, Israele in questi giorni venendo incontro agli Usa, cerca la strada per un'operazione mirata e per l'evacuazione e la protezione del maggior numero possibili dei cittadini. Il problema è sempre, però, come proteggerli da Hamas nelle operazioni di soccorso umanitario: la posizione americana sembra piuttosto confusa.

Israele a sua volta promette di «inondare» Gaza di aiuti, mentre costruisce una strada nuova per distribuirli; gli americani si avviano alla costruzione di un porto che sembra una vera utopia: una volta sbarcati gli aiuti, da chi dovranno essere gestiti? Hamas è sempre in agguato per un'operazione di appropriazione; né si può giurare, data la sua ossessione ideologica antiamericana, sulla sicurezza delle truppe americane che Biden sta spedendo in zona.

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