L'anno bellissimo non c'è più. Se ne ragiona da tempo al ministero dell'Economia che nella scrittura del Def vorrebbe inserire un misero +0,1% di crescita del Pil quest'anno. L'ha già messo nero su bianco il Centro studi Confindustria (Csc) che ha abbassato le stime del prodotto interno lordo da +0,9% a zero con un risibile +0,4% l'anno prossimo. Le ricadute sul deficit/Pil saranno devastanti perché è previsto al 2,6% dal 2% ipotizzato in manovra e, tutto sommato, raggiungibile in un quadro di crescita che però è totalmente scolorito. Tant'è vero che Viale dell'Astronomia vede il tasso di disoccupazione fermo al 10,6% in tutto il triennio 2018-2020.
Insomma, le solite due parole, «manovra» e «correttiva», non si possono non pronunciare perché, quand'anche reddito di cittadinanza e quota 100 portassero benefici (un +1,4% sui consumi nel 2021), è possibile che la probabile impennata dello spread e la necessità di aumentare la pressione fiscale convincano gli italiani a risparmiare di fatto annullando la portata anticiclica delle due misure. Non è un caso che il debito pubblico venga stimato in aumento al 133,4% nel 2019 (dal 132,1 nel 2018) e al 133,6% nel 2020.
Il governo ha ipotecato il futuro e ora pare non avere armi contro quella che si annuncia come una recessione inevitabile. A settembre, se l'esecutivo attuale sarà ancora in carica, il ministro dell'Economia si troverà dinanzi a un bivio: far scattare i 23 miliardi di clausole di salvaguardia prolungando l'infinita stagnazione (l'effetto recessivo sarebbe di 0,3 punti di Pil) o far salire il deficit al 3,5% innescando una crisi da spread per l'impennata del debito. Secondo Confindustria, anche l'intervento sull'Iva non servirebbe a riportare il saldo strutturale sul sentiero virtuoso e di qui a 12 mesi occorrerebbe la manovra correttiva perché sono necessari 32 miliardi per instradare il deficit su un sentiero di riduzione. Ovviamente, senza risorse per la crescita.
Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha spiegato questo circolo vizioso con drammatica semplicità. «La crescita è bassa, il debito è alto, il lavoro si trova e non si trova e queste difficoltà richiedono interventi strutturali e politiche prudenti». Detto ancor più sinteticamente: le spese vanno tagliate per evitare che il disavanzo continui a salire. «Secondo me ci dovrà essere un aumento delle tasse da qualche parte: non tutti i 23 miliardi potrebbero arrivare dall'aumento dell'Iva e le risorse bisognerà trovarle da qualche altra parte: cancellazione degli 80 euro, riduzione del reddito di cittadinanza, sono scelte politiche», ha spiegato il direttore del Csc, Andrea Montanino. Anche perché nell'ottica confindustriale andrebbero sbloccate risorse per detassare gli investimenti che sono tornati a diminuire. Ne è una piena testimonianza il calo dell'indice di fiducia dei consumatori per il quale a marzo è stata stimata una diminuzione da 112,4 a 111,2.
D'altronde, bisogna inventare qualche strategia perché se si bloccasse l'export, che ancora cresce, sarebbe crisi nera. «È pieno di gufi, hanno sempre cannato in passato», la reazione a caldo del vicepremier Matteo Salvini che poi corregge il tiro rivolgendo un bel «fateci lavorare» agli «amici di Confindustria». «Le loro preoccupazioni sono anche le nostre», gli fa eco Luigi Di Maio.
«Un fallimento epocale che gli italiani saranno costretti a pagare di tasca loro nei prossimi anni», ha commentato Renato Brunetta imputando al ministro Tria di aver puntato «sulle costosissime misure del reddito di cittadinanza e della quota 100 e non avendo fatto nulla per
contenere il debito pubblico». Ora che i soldi stanno per finire, è il ragionamento, i motori per tentare una manovra in extremis hanno terminato la benzina. Sperando che non sia la Troika a gettare il suo costoso salvagente.
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