Come può essere la vita di un eterno condannato a morte? Iwao Hakamada aspetta da quarantaquattro anni di essere giustiziato e ogni tanto, come dice il suo avvocato, «sembra che viva in un mondo di fantasia». Ogni giorno di vita in più Iwao lo ha vissuto come uno strappo all'appuntamento con la morte; qualcosa di ancora più straordinario visto che in Giappone i condannati alla pena capitale vengono informati dell'impiccagione una manciata di ore prima dell'esecuzione. Così per quasi cinquant'anni. Ci sarebbe da impazzire se non si fosse così disperatamente attaccati alla vita. Iwao Hakamada, ex pugile giapponese, è il detenuto più longevo al mondo rinchiuso nel braccio della morte. Domani però qualcosa finalmente potrebbe accadere: un tribunale deciderà una volta per tutte se dovrà essere giustiziato o assolto.
L'incredibile storia giudiziaria di Hakamada inizia nel 1968 quando finisce a processo con l'accusa di aver derubato e poi sterminato una intera famiglia: il suo capo, la moglie e i due figli della coppia adolescenti. Un crimine che a Tokio si paga con la morte.
Iwao all'inizio nega tutto, poi confessa. Nel 1980 la Corte Suprema lo condanna, ma per decenni i suoi sostenitori non si arrendono. Chiedono di riaprire il caso. Qualcosa non torna, emergono ripetutamente dubbi e incongruenze. È Iwao che trova il coraggio di ammettere che l'interrogatorio della polizia a cui venne sottoposto fu brutale con l'accusa basata su un mucchio di vestiti macchiati di sangue trovati un anno dopo gli omicidi. Gli investigatori hanno probabilmente piazzato i vestiti poiché le macchie rosse sono troppo brillanti, sostengono dalla difesa, ma i pubblici ministeri controbattono con prove scientifiche a dimostrazione che la vivacità del colore è credibile. La svolta arriva nel 2014 quando è emerso che i procuratori avrebbero potuto falsificare le prove. Da allora Hakamada è in attesa di un nuovo processo che è stato però rinviato per anni per cavilli legali. Emerge qualcosa di profondamente oscuro, confessioni estorte e prove fasulle che sarebbero state fabbricate ad arte; aberrazioni che se confermate proverebbero l'esistenza di una gigantesca falla nel sistema giudiziario giapponese, colpevole secondo alcuni di «tenere in ostaggio i sospettati». «Da così tanto tempo combattiamo una battaglia che sembra infinita, ma credo che questa volta verrà messa la parola fine», ha raccontato la sorella di Iwao, Hideko di 91 anni.
La Procura ha ribadito di essere convinta della colpevolezza dell'ex pugile «oltre ogni ragionevole dubbio», ma quello di Hakamada è «solo uno degli innumerevoli esempi del cosiddetto sistema giapponese di giustizia degli ostaggi», ha detto Teppei Kasai del Human Rights Watch. E chissà se Hakamada domani uscirà dal suo mondo di fantasia per affacciarsi a quello reale.
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