Se estradato negli Stati Uniti Julian Assange rischia una condanna fino a 175 anni di prigione. Impossibile che chi scrive su un giornale si auguri, anche solo in via ipotetica, una punizione del genere. Ma la stessa sentenza del giudice inglese, Vanessa Baraitser, che ha respinto ieri in primo grado la richiesta americana di estradizione, contribuisce a rendere complicato il giudizio sul controverso australiano dai capelli bianchi.
Le accuse delle autorità di Washington, ha detto il magistrato Vanessa, non possono essere considerate un attacco alla libertà di stampa, e neppure sono politicamente motivate. Le richieste provenienti da oltre Oceano sono state avanzate in «buona fede» e il comportamento di Assange è andato «ben oltre» una normale attività giornalistica.
L'estradizione va negata «solo» perchè, mettendo in pericolo la salute dell'imputato ed esponendolo al rischio «sostanziale» di un suicidio, si superano i limiti del trattato di estrazione in vigore.
Il risultato è che la figura di Assange resta dov'era: in bilico su un crinale sottile. Da una parte il diritto di informare, dall'altra, una forma moderna e «social» di manipolazione che ha come conseguenza quella di abbattere ogni differenza tra sistemi liberal-democratici e regimi illiberali, utilizzando la libertà offerta dai primi a favore dei secondi.
Assange ha cambiato il mondo con il ciclone Wikileaks: la prima bomba fu la pubblicazione dei manuali delle guardie di Guantanamo, poi toccò ai documenti confidenziali sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e ancora le carte riservate sull'occupazione dell'Irak. Migliaia e migliaia di documenti indiscriminatamente resi pubblici. Senza tenere conto delle conseguenze. Tutto giusto, tutto limpido, dicono i difensori di Assange. Le democrazie non sono una casa di vetro?
Certo non sono mancati gli incedenti di percorso: come quando, con l'intenzione dichiarata di voler mettere alla berlina le trame del potere autocratico in Turchia, Wikileaks pubblicò centinaia di migliaia di mail privati cittadini che si trovarono a dover fare i conti con conversazioni diventate pubbliche. Oppure quando informatori e sostenitori delle forze alleate in Afghanistan e Irak si trovarono esposti a sanguinose vendette.
Ma il caso che più di altri mette in evidenza le contraddizioni di Assange e delle sue scelte è quello delle mail trafugate al partito democratico americano, la cui diffusione assestò un colpo decisivo a Hillary Clinton. La provvidenziale soffiata, anzi i provvidenziali gigabyte di dati, arrivarono mentre la campagna di Donald Trump sembrava ormai a un punto morto. Roger Stone, consulente di Donald, poi condannato e appena «perdonato» dal presidente uscente, le anticipò di qualche ora con un tweet.
Le agenzie di sicurezza occidentali sono ancor oggi d'accordo su un punto: il furto è stata opera di hacker russi al servizio del Cremlino. Assange ha sempre negato di averle ricevute da Mosca, rifiutando come ovvio, di chiarirne la provenienza. Per un profeta della trasparenza un'opacità niente male.
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