Non mi esprimo sul fatto che numerose aziende di moda scelgano, da tempo, di produrre abiti già prematuramente rovinati come i famosi jeans con gli strappi. È, come si dice, un segno dei tempi: dove l'accelerazione globale dei messaggi, oltre che del flusso materiale delle persone e delle cose, porta a un desiderio costante di bruciare le tappe. Lo dico senza retorica o nostalgia rétro. Certo è che, nel vestire, stretto tra le due tagliole del nuovo a tutti i costi o del nuovo già invecchiato, io scelgo d'istinto, poeticamente, una strana via di mezzo: quella che già in passato ho chiamato il «fascino del polsino liso». Quello cioè che fa sì che un abito vissuto (da noi, o da qualcuno che ci è prossimo) ci emozioni.
Per chiarirci: io amo un abito, o un oggetto, quando, prima ancora di comprarlo, lo riconosco come intimamente «mio», in grado cioè di adattarsi all'immagine che nel tempo ho costruito, e costantemente continuo a costruire, di me stesso. Siamo noi a «riconoscere» l'abito come nostro, e lui, in qualche maniera, a chiamarci. Un colore: il nostro. Una vita: alta, bassa. Un particolare risvolto, un'asola, un bottone. Un tessuto che sentiamo come nostro, o addirittura «il» nostro.
Ma l'abito diventa ancora di più «nostro» quando è vissuto: è intriso di noi, del nostro passato, dei nostri ricordi. Un lampo ci fa associare una particolare emozione a quell'abito, di più, anzi: una consapevolezza sottile, ma costante, che si rinnova col tempo e col passare delle storie, delle emozioni, del nostro vissuto. Questo ce lo fa sentire più che mai «nostro». Molto nostri. E allora è nostro, sarà per forza nostro, anche quel buchetto su una manica. Quel po' di consunzione del tessuto, senza necessariamente arrivare allo strappo. E a volte sì, ammettiamolo, anche fino allo strappo, oltre lo strappo, tanto abbiamo sentito nostro, e non vogliamo abbandonare, quell'abito (o quel maglione, o quella giacca).
Ecco, allora, che la scelta si sposta dal piano estetico a quello emozionale, intimo, privato. Che fa scattare il senso di appartenenza. Dopotutto, non avviene così anche coi mobili, gli oggetti, le suppellettili che teniamo in casa, si tratti di manufatti artigianali, o di design, o d'arte? Non ci troviamo in fondo un pregio, in certe consunzioni di un oggetto, proprio per la consapevolezza di quanta strada quell'oggetto abbia condiviso con noi, con le nostre storie, dolci o drammatiche che siano state? Il nostro habitat, prima ancora che il nostro abito, è la nostra storia: rispettiamone, dunque, e amiamone, anche i segni del suo invecchiare assieme a noi.
Fino a che un altro abito, un'altra giacca, un altro oggetto, un altro mobile, che nel frattempo avremo scovato da qualche parte e riconosciuto come nostro, e di conseguenza avremo necessariamente sentito il desiderio di possedere, non si sommeranno e si sostituiranno a quello vecchio, andando a costituire un altro tassello del nostro passaggio su questa terra. In questo solo caso vorrei dire che l'abito, per una volta, fa davvero il monaco.
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