«Tanto lo so che non potete farmi niente». Sono loro i primi a saperlo, i ladri bambini che piagano il centro di Milano, e che trasformano in bersaglio qualunque orologio e qualunque borsa, e che vengono oggi evocati come ultima frontiera dell'insicurezza del capoluogo lombardo. Quando vengono bloccati - da ultimo l'altro ieri, uno sbarbato di dodici anni, dopo l'ennesimo Rolex sfilato al solito turista - non si spaventano, non devono implorare perdono. Non li aspetta il carcere nè il riformatorio. Li identificano, li segnalano, e poi li restituiscono alla famiglia: a volte la stessa famiglia che li ha mandati a rubare, spesso una famiglia che li trascura, li abbandona, o esiste solo sulla carta.
La chiave dell'impunità sta tutta lì, nelle poche righe in cui il codice penale fissa a quattordici anni il limite minimo per l'imputabilità. Dai quattordici e fino ai diciotto, si soggiace al tribunale dei minori, con le sue pene più blande, i suoi percorsi di recupero: anche se a volte anche quelli restano solo sulla carta, perchè chi frequenta il «Beccaria», lo storico minorile di Milano, ha a che fare con un turnover frenetico di ragazzi che entrano, escono, si dileguano nel magma urbano da cui provengono: e i tentativi di allacciarli svaniscono insieme a loro.
Al di sotto dei quattordici per la legge c'è il nulla, si apre il vasto regno dell'impunità. Non potrebbe essere che così, ovviamente. Come si può pensare di incarcerare o comunque punire un bambino che a stento comprende il senso delle sue azioni? La legge non prevede che lo Stato faccia del tutto finta di nulla. Per loro, ancora più che per i fratelli maggiori, dal momento dell'arresto dovrebbe innescarsi un percorso di aggancio e di recupero, in grado di inviarli su bivi diversi da quello che troppo presto hanno imboccato.
Il problema è che tutto avviene lontano dai rigori del codice penale, affidato alla mano malferma dei servizi sociali, che più di tanto non possono fare e a volte non fanno neanche il poco. D'altronde come trattieni un ragazzetto fuori controllo? Li portano in comunità, la mattina dopo se ne sono già andati, lasciando ai giudici minorili la desolante sensazione di svuotare il mare con un cucchiaio bucato. In teoria alcuni di loro in quanto abbandonati potrebbero essere dichiarati adottabili, ma chi se li piglia in casa?
Così, inevitabilmente, il messaggio che arriva loro è solo la garanzia dell'impunità incondizionata. Non arriva solo a i ladri bambini, purtroppo. Arriva anche agli adulti che gli stanno dietro e che li usano. Perchè questo è ovvio: non fanno tutto da soli. D'altronde che ne sa un bambino di come si piazza un Daytona rubato, di come si monetizza una Kelly? A dodici anni non si conosce il giro dei ricettatori.
Accade oggi con i piccoli di origine maghrebina quanto accadeva da sempre con i bambini rom. Che crescevano in una comunità dove le regole della devianza e della microcriminalità erano ben note, e dove fare i conti con la giustizia era una sorta di mestiere. Così a fare il lavoro sporco venivano mandati i figli minori, i non ancora quattordicenni: abbastanza agili per scavalcare un balcone o sfilare un portafoglio, troppo piccoli per essere puniti. Più che colpevoli erano vittime, e qualche indagine sullo stato di schiavitù in cui di fatto erano tenuti venne tentata ma senza grande seguito. Lo stesso accade oggi, a mandare allo sbaraglio i «non imputabili» sono a volte i padri o i fratelli maggiori, a volte semplicemente altri adulti diventati il loro riferimento in un contesto di rapporti familiari sfilacciati.
Così a muoversi nella città per conto degli adulti che li usano sono loro, i piccoli, che dei luoghi appetibili sono diventati conoscitori precoci: il quadrilatero della moda, le via della movida dove adocchiare il ricco
distratto o alticcio. I «falchi» della Squadra Mobile hanno imparato a riconoscerli al volo, a volte a giocare d'anticipo, a volte a bloccarli. Sapendo già che li attende il sorriso quasi da scugnizzo: «Non potete farmi niente».
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