«Non mi sono mai vergognato tanto del mio Paese come il 24 febbraio. La guerra di aggressione voluta da Putin, di fatto contro l'intero mondo occidentale, non è solo un crimine contro l'Ucraina, ma anche uno dei crimini più gravi compiuti contro il popolo russo».
Per tre mesi Boris Bondarev, 41 anni, consigliere diplomatico di Mosca all'Onu di Ginevra, ha meditato il suo gesto. Ieri ha deciso che l'addio alla Russia fosse clamoroso: ha scritto una lettera e l'ha inviata per mail a decine di diplomatici. «Avrei voluto farlo subito, ma dovevo sistemare alcune questioni familiari e trovare la determinazione necessaria», ha spiegato. Il testo è un atto d'accusa impietoso contro il regime. «Chi ha concepito questa guerra vuole una cosa sola: rimanere al potere per sempre, continuare a vivere in palazzi disgustosamente lussuosi, navigare su yacht di dimensioni paragonabili a quelli dell'interna marina da guerra russa, godere di un potere illimitato e di illimitata impunità. Per ottenere l'obiettivo non esita a sacrificare vite umane. Migliaia di ucraini e russi sono già morti per questo». Bondarev racconta poi del suo lavoro al Ministero degli Esteri, ridotto, scrive, a metodi da propaganda anni Trenta. «Il Ministro Lavrov è un buon esempio di questo degrado. In 18 anni è passato dall'essere un intellettuale educato e professionale a uno che minaccia il mondo (e anche la Russia), di usare le armi nucleari. Oggi il Ministero degli Esteri russo non si occupa di diplomazia ma di odio, bugie e propaganda bellica».
Bondarev, funzionario di medio livello, a Ginevra trattava sopratutto questioni legate ai temi del disarmo e la sua decisione non ha precedenti. Nei primi giorni della guerra il capo della delegazione russa a un vertice Onu sul clima, Oleg Anisimov, si era scusato «a nome di tutti i russi che non erano riusciti a impedire il conflitto». Una ventina di giorni fa sulla pagina Instagram del consolato russo di Edinburgo il console Andrei Yakovlev in persona aveva condannato la guerra, salvo poi spiegare che il sito era stato hackerato.
«Una defezione così rumorosa è la prima di cui si abbia notizia tra i diplomatici», commenta Andrei Kolesnikov, analista presso il Carnegie Center di Mosca. «Anche se può essere che ci siano state dimissioni senza dichiarazioni pubbliche. Di recente è accaduta una cosa del genere tra alcuni alti manager di una delle maggiori banche, Sberbank: se ne sono andati senza scandali. Tra i funzionari pubblici è però un fenomeno raro, prevale il conformismo e non vedo una tendenza in questo senso. Non si può dire che l'èlite di potere sia pronta per passi di questo tipo, per non parlare di cospirazioni o di colpi di mano».
Tutt'altra cosa è il disagio della società civile, testimoniato dalle decine di migliaia di russi che nelle settimane successive all'invasione hanno deciso di cercare un futuro all'estero: giornalisti e intellettuali, artisti, perfino la prima ballerina del Bolscioi, Olga Smirnova. Un'ondata di emigrazione che è stata paragonata a quella successiva alla presa del potere dei bolscevichi, nei primi anni Venti, in cui lasciarono la Russia artisti come Marc Chagall e Vasily Kandinsky o scrittori come Vladimir Nabokov e Ivan Bunin (primo russo a vincere il premio Nobel).
Nelle settimane scorse se ne sono andati anche manager e tecnici, tra gli altri Anatolij Chubais, ex vice-premier ai tempi di Eltsin e un ex vicepresidente di Gazprombank. In qualche caso le autorità hanno già dovuto correre ai ripari.
Per trattenere i programmatori informatici, favoriti dal fatto di avere un mercato del lavoro internazionale, il governo di Mosca ha emanato una legge speciale che garantisce mutui a tassi agevolati e l'esenzione dal servizio militare.
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