Se c'era una cosa di cui il made in Italy agroalimentare non aveva bisogno in questo momento era aprire anche il dossier del pesto. La salsa a base di basilico, olio, aglio, parmigiano (e pecorino) e pinoli che è il vanto della gastronomia ligure. E che un'azienda italiana molto nota produce negli Stati Uniti e vende in Europa senza rinunciare naturalmente al tricolore, altrimenti chi se lo compra?
Strana storia quella che coinvolge il Pastificio Rana Spa, una delle aziende alimentari italiane più note al grande pubblico anche grazie alle pubblicità che negli anni Ottanta utilizzarono per la prima volta lo stesso patròn Giovanni Rana, col suo faccione da parroco di provincia, come testimonial. La Pastifici Rana ha da qualche anno aperto un sito produttivo anche negli States, precisamente a Bartlett, nei sobborghi di Chicago, Illinois, dove la Rana Meal Solutions realizza, si legge nel sito dell'azienda, «prodotti innovativi e pensati appositamente per i palati d'oltreoceano». Non soltanto, se è vero che, come ha raccontato ieri il sito di Repubblica, gli ispettori di frontiera del ministero della Salute hanno bloccato nel porto di Genova un carico di 7,2 tonnellate di pesto americano made in Rana destinate a rifornire con il marchio Kirkland gli scaffali delle filiali francesi e spagnole della Costco, un colosso americano dell'hard disconut che in Italia non è (ancora) arrivato ma che ha centinaia di ipermercati in molti Paesi del mondo. Contro lo stop dei finanzieri gli avvocati dell'azienda veronese Tito Zilioli e Riccardo Ruffo hanno presentato ricorso al Tar: e ora sarà il tribunale amministrativo di Genova a dover stabilire se quel pesto può circolare o se si tratta di una truffa alimentare.
Il problema risiede in questo: quei contenitori da 10 chili l'uno di pesto non sarebbero «conformi per controllo identità non soddisfacente ai sensi del regolamento della Comunità europea 625/2017». Al netto del burocratese la questione è se sia corretto che l'azienda definisca in etichetta quel pesto «100% imported italian basil Dop - genovese basil». Certo, il know how è italianissimo. E gli ingredienti sciorinati in etichetta sono piuttosto fedeli alla tradizione ligure, a parte la presenza dell'olio di girasole accanto a quello extravergine d'oliva. Ma la legge italiana dispone chiaramente il divieto di utilizzare in etichetta il richiamo a denominazioni geografiche o di origine qualora si tratti di prodotti industriali. E in questo caso comunque il pesto non è prodotto in Italia anche se è prodotto da un'azienda italiana. Torna in mente il caso del formaggio Gran Moravia, una sorta di grana prodotto in Repubblica Ceca con latte locale dall'azienda italiana Brazzale, che non può comunque utilizzare il marchio e il nome del formaggio e si è inventato un marchio nuovo.
La Rana ha spiegato che il basilico contenuto in quei barattoloni è davvero genovese dop, l'azienda ne acquisterebbe ogni anno 2.500 tonnellate in forma di semilavorato con olio e sale che viene stoccato e utilizzato tutto l'anno e quello di Chicago fa parte di questo «tesoretto». Rana è il primo esportatore al mondo di basilico dop. Che poi sia ritornato in Europa dipende dal fatto che la Costco abbia chiesto anche per alcuni store francesi e spagnoli quel prodotto. E anche il consorzio di tutela della verde erba aromatica difende i Rana come di «una delle poche aziende che contribuisce attivamente da oltre un decennio a promuovere e valorizzare il nostro basilico in tutto il mondo». Ma come farebbe un consorzio a scaricare il suo primo cliente?
Vedremo che cosa decideranno i giudici genovesi e se quelle sette tonnellate di pesto giramondo finiranno nei piatti dei parigini e dei madrileni.
Di certo è buffo che questo caso segua di qualche settimana lo scalpore creato dall'intervista rilasciata da Alberto Grandi al Financial Time per smontare i miti della tradizione gastronomica italiana: per Grandi la carbonara è nata in America, le pizzerie anche e pure il Parmigiano in fondo è del Wisconsin. E ora vogliamo scandalizzarci se il pesto è dell'Illinois? Al massimo, come diceva l'amerikano Alberto Sordi «'o damo ar gatto».
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