Un tempo c'era la Lega di lotta e di governo, magistralmente tenuta assieme dal Senatùr. Ora c'è la Lega nazionale, sovranista e destrorsa di Salvini. Un monolite? Niente affatto. Sotto, silente, continua ad ardere la brace del leghismo nordista, autonomista, e perfino europeista. Una Lega sommersa, nascosta, dormiente. Che c'è ma non alza la voce perché in fondo è vero: Salvini ha portato il Carroccio dall'8 al 13%. Perché fiatare, quindi?
Ma i mal di pancia ci sono eccome nei confronti della svolta salviniana impressa per l'ambizione del suo capo. Il quale ha sempre fatto il seguente ragionamento, per altro non sballato: «Se voglio fare il premier non posso essere il leader di un partito territoriale, che prende voti solo in Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria». Quindi ecco che il Carroccio punta verso Sud: non tanto per vincere ma per esserci. Per dire: «Siamo una forza nazionale». Ma tutto questo Meridione, tutto questo sudismo fa soffrire il leghista doc, l'ortodosso, il valligiano, il nostalgico di Dio, famiglia e Padania. Dov'è finito il «Prima il Nord», slogan che ancora adesso scorre nelle vene dei leghisti? Molti arricciano il naso ma di nascosto, come spesso avvenuto in un partito dove comanda il capo e basta. L'unico a dire «Beh» è il «capo», il «fondatore», il vecchio Senatùr che piccona il segretario su tutti i fronti: sbagliata la svolta sudista, sbagliata la lotta No euro, sbagliato rompere l'alleanza con Forza Italia.
Bossi smaschera Salvini: «Va a Napoli per l'investitura. Così può dire che la Lega è un partito nazionale». E ancora: «La Lega non diventerà un'altra cosa raccattando i voti di quattro fascistoni». E sull'addio alla moneta unica: «Pagheremmo di più le materie prime: sarebbe un disastro». Insomma, un attacco frontale su tutti i fronti. Salvini fa spallucce: «Io tiro dritto per la mia strada. Mi dispiace che coincidano le analisi di Bossi e di Forza Italia sul fatto che la Lega deve starsene chiusa solo nel suo recinto al Nord. Forse qualcuno ha nostalgia delle cene di Arcore, e dei governi dove la Lega era minoranza con Fini, Alfano e Casini».
Bossi, insomma, è uscito allo scoperto e fa intendere di voler far qualcosa. Una scissione? Oppure una battaglia interna per riprendersi - o lui personalmente o attraverso un suo uomo - il timone del Carroccio? Presto per dirlo. La seconda ipotesi sarebbe plausibile di fronte a un tracollo di Salvini alle prossime elezioni. La prima sarebbe fattibile se l'Umberto avesse delle sue truppe. Quelle vecchie, però, sono state tutte spazzate vie dalla «rivoluzione delle scope» voluta da Maroni. Umberto è solo, quindi; ma mica poi tanto. Anche nel «cerchio magico» salviniano fanno presa le critiche di Bossi. Anche uomini come il brianzolo Eugenio Zoffili o il milanese Fabrizio Cecchetti non sono insensibili al tradizionale verbo padanista. Idem i big come il segretario della Lega Lombarda Paolo Grimoldi che, per paradosso, un tempo era vicino a Flavio Tosi, primo precursore della svolta nazionale. Oppure come il mantovano Gianni Fava, anch'egli ex tosiano ma ora allineato a Salvini. Già, sono tutti allineati con Salvini perché i sondaggi sono i sondaggi. Un leghista anonimo confessa: «Il discorso che si fa è questo: con la Lega al 15% significa avere 150 posti in Parlamento.
Quindi c'è posto anche per me. Perché contestare la linea sudista anche se non ci va giù?».E persino sul No euro in fondo c'è chi mormora: «Aveva ragione Bossi: nell'euro ci doveva entrare solo la Padania, non i terùn».
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