"L'epidemia di solitudine? Alza i rischi di morte del 30%"

Lo psichiatra lancia l'allarme per adolescenti e anziani. Le autorità Usa: "L'isolamento uccide come il fumo"

"L'epidemia di solitudine? Alza i rischi di morte del 30%"

Negli Stati Uniti la solitudine è stata classificata come la nuova epidemia: secondo il governo ne soffre un adulto su due. «Può rivelarsi mortale come il vizio del fumo e può aumentare il rischio di morte prematura del 30%» mette in allerta Vivek Murthy, la massima autorità sanitaria Usa.

Ne abbiamo parlato con Giancarlo Cerveri, psichiatra e autore del libro Non ti fissare, dedicato ai disturbi del pensiero che ci ingabbiano la mente, molti dei quali nati o alimentati proprio dalla solitudine.

Cerveri, lei crede che anche in Italia la solitudine sia un problema così diffuso?

«Rispetto agli Stati Uniti abbiamo una struttura sociale più coesa sotto l'aspetto famigliare. Ma le cose stanno cambiando velocemente anche qui, sia per l'invecchiamento della popolazione, sia per il cambiamento dei nuclei famigliari. E gli effetti sono drammatici».

È una conseguenza del Covid?

«Dal periodo della pandemia, delle restrizioni e del lockdown, c'è stata una frattura nelle relazioni, abbiamo perso l'abitudine a incontrarci e i rapporti sono molto cambiati. I giovani hanno investito molto sui social, gli anziani no e infatti sono quelli che patiscono di più. Una delle conseguenze più gravi della pandemia è stata la distruzione delle relazioni, che ci aiutano a mantenere attivo il cervello sociale. Stando soli ci fissiamo sulle nostre paure, rafforziamo i pensieri personali e diventiamo meno capaci di confrontarsi. È un attimo che il confronto con gli altri diventi scontro».

Però ora è passato del tempo, dovremmo aver recuperato gli effetti del lockdown.

«Quando le persone hanno smesso di vedersi è come se avessero avviato delle nuove abitudini. E chi già prima aveva difficoltà o paura nelle relazioni, è rimasto imprigionato in una vita più reclusa».

L'istituto di Fisiologia clinica di Pisa sostiene che in Italia ci siano almeno 50mila ragazzi Hikikomori, rinchiusi nelle loro camerette.

«Sì, sono aumentati. Sono persone molto difficili da aiutare. Hanno creato un habitat in cui credono di comunicare con l'esterno tramite i social e in cui riescono anche a guadagnare, con attività on line. Non pensano di avere un problema. Devono essere i genitori ad accorgersene e a rivolgersi ai servizi di salute mentale. A questi ragazzi manca una reale comunicazione emotiva».

Cosa rischiano?

«Sono fragili, rischiano di rifugiarsi nelle sostanze stupefacenti, E rischiano la depressione, così come anche gli anziani. La solitudine ne è il passaggio precedente: impoverisce l'individuo, impedisce la crescita, favorisce la tendenza a non prendersi cura di sé a non impegnarsi socialmente. Si arriva a lasciarsi vivere. Chi si isola non dà e non chiede. Però non fa male a nessuno, non dà fastidio. Quindi il problema va stanato, non è sempre evidente».

Che compito ha la scuola?

«Deve avere la capacità di coinvolgere i ragazzi per spingerli a chiedere aiuto, per accompagnare davvero la loro crescita».

Dare la colpa ai social è sminuire il problema o è vero?

«I social hanno cambiato il nostro modo di relazionarci, di innamorarci. Le app per gli incontri sono sempre più mirate: ci sono quelle per gli adulti, per i giovani, per le persone con disturbi dello spettro autistico. Stanno sostituendo quello che una volta era il muretto attorno al qualche i ragazzi si incontravano a parlare».

In fondo anche la tv on demand ha cambiato il modo di condividere. Un tempo guardavamo tutti lo stesso film nella stessa sera. Ora forse siamo più soli anche in quello.

«Ora non c'è più una sola misura.

Ci sono tanti prodotti tra cui scegliere e al posto dell'intervallo del giorno dopo a scuola, si va a cercare il confronto nelle chat specifiche, con persone che hanno la stessa passione. Ma che non guardiamo in faccia».

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