Lo statuto del Partito democratico vieta a sindaci, assessori e consiglieri regionali del partito di candidarsi nelle liste per il Parlamento. Eppure Enrico Letta ha chiesto a tutti i governatori e sindaci del Pd di candidarsi alle elezioni per il parlamento.
Ignorando le regole che si sono dati da soli. Un po’ come vorrebbero fare i parlamentari 5stelle, da Roberto Fico a Paola Taverna, che se dovessero rimanere con Conte non potrebbero ricandidarsi, avendo Beppe Grillo ribadito che il limite dei due mandati non si tocca. Mentre Giuseppe Conte prima dell’ultima diaspora aveva annunciato un voto online per far decidere gli iscritti.
Letta invece due giorni fa ha riunito su zoom tutti i sindaci dem capeggiati da Antonio Decaro, invitando tutti quelli a cui mancano due anni di mandato, a candidarsi nelle liste per il parlamento.
Per farlo la legge prevede che i sindaci debbano dimettersi un mese prima delle elezioni. Diversamente dai presidenti di regione quindi non potranno fare una campagna elettorale da primi cittadini.
Mentre i governatori possono scegliere dopo il voto se mantenere la carica in regione o lo scranno parlamentare. Per questo motivo per loro è molto più semplice accettare l’offerta di Letta, anche perché in caso di vittoria per loro si aprirebbero le porte di un ministero, mentre in caso di sconfitta potrebbero continuare a guidare la propria regione anziché andare a fare i deputati semplici.
Per i sindaci invece la scelta è un salto nel buio. Per questo sono più propensi a esprimere un proprio candidato di fiducia nel listino bloccato, promettendo di spendersi personalmente per la campagna elettorale, anziché scendere in campo in prima persona.
Da qui infatti il loro coinvolgimento attivo per l’appello a Draghi per chiedergli di restare, trasformato per sineddoche dal presidente nell’ultimo discorso in quel “gli italiani mi chiedono di restare”.
Poter piazzare i loro uomini in parlamento per i sindaci del pd si trasformerebbe in un ulteriore rafforzamento di poteri per una classe dirigente che da qualche anno chiede di allargare il proprio operato dai confini comunali.
E al Pd garantirebbe una maggior afflusso elettorale grazie alla spinta di quegli amministratori a cui sono i cittadini a non poter dire di no. Piazzando i sindaci delle città capoluogo all’uninominale, tutti, anche gli alleati locali, si sentirebbero costretti a portare il loro sostegno, dato che una sconfitta dei primi cittadini metterebbe a rischio l’amministrazione comunale.
Poco importa se poi rappresentano proprio la classe dirigente che in questi anni si è dimostrata più populista cavalcando più da vicino comitati del no e sindrome nimby. È il caso di Antonio Decaro, che proprio due giorni fa ha perso il ricorso del Consiglio di Stato contro un termovalorizzatore di ultima generazione, mentre si riproponeva come capo ultrà draghiano e capolista del Pd alle politiche.
Ironia della sorte ii governo Draghi cade perché i 5 stelle non vogliono il termovalorizzatore che il pd vuole fare a Roma, e poi
il pd candida un sindaco contrario allo stesso impianto a Bari.Ma un mese è poco per riflettere sulla linea politica: martedì convocata direzione Pd per approvare le deroghe allo statuto per fare le liste.
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