A due giorni da voto, Enrico Letta è sufficientemente ottimista da anticipare «un grande successo», anzi addirittura un possibile «trionfo» alle amministrative di domenica.
Un trionfo che avrebbe per lui un riflesso politico importantissimo: lo blinderebbe alla guida del Pd, allontanando ogni ipotesi di congresso, e darebbe avvio ad una nuova fase nella quale anche le elezioni anticipate non susciterebbero più al Nazareno il terrore di prima. Anche se per ora il segretario allontana pubblicamente la prospettiva, respingendo l'ipotesi di eleggere Mario Draghi al Colle: «Non è una cosa nell'interesse dell'Italia. L'interesse dell'Italia è che il governo Draghi duri»
L'asticella Letta la fissa, prudentemente, sul 3 a 2 per il centrosinistra: «Sarebbe un risultato soddisfacente». Va sul sicuro, perché a Milano con Sala, a Bologna con Lepore e a Napoli con Manfredi il Pd potrebbe farcela in carrozza, in alcuni casi addirittura al primo turno. Poi c'è il possibile «trionfo» (di cui la sua praticamente scontata elezione nel collegio di Siena sarà la ciliegina sulla torta) del 5 a 0, con Torino, dove il testa a testa col centrodestra è serrato, e Roma, la preda più ambita. Dove ieri Letta ha chiuso la campagna elettorale al fianco di Roberto Gualtieri, nel collegio periferico di Primavalle. E da quel podio il segretario Pd ha tracciato lo scenario politico che ha in testa: da una parte la pericolosa «destra orbaniana» di Salvini e Meloni, dall'altra il Pd come perno «di equilibrio e di forza» di una «coalizione progressista». É questo «il nuovo bipolarismo», nel mezzo non ci può essere nulla. Anche le divisioni nella Lega e le ipotesi di spostamento al centro di un Carroccio meno salviniano non lo convincono: «Giorgetti e Salvini giocano al poliziotto buono e cattivo».
Chi ipotizza altro dal radicale «nuovo bipolarismo» «racconta storielle», e chi «passa il tempo a fare critiche a noi o ai nostri alleati (leggi Conte, ndr) lo fa per far vincere gli altri». Il riferimento è ovviamente a Carlo Calenda, temutissimo dal Pd nella Capitale, e più in generale a chi, come Matteo Renzi ma anche l'ala riformista del Pd, invitano a guardare più all'agenda Draghi che a quella Conte, e più al centro che alla sinistra populista. L'avvertimento è chiaro: se il Pd domenica incasserà una vittoria netta, non saranno più accettati distinguo interni e critiche esterne, la linea sarà «o di qua, con noi, o di là, con le destre». «Non ci sono alternative, non ci sono sfumature: o a Roma vinciamo noi con Gualtieri o qualsiasi altra scelta sarà dannosa per la città», afferma Letta. Chi vuol votare Calenda, insomma, farà un danno alla Capitale e un favore alla destra, questo è il messaggio. Del resto è quel che da giorni continuano a martellare i dirigenti Pd, che ormai sembrano concentrati su un unico nemico. Non l'apocalittica Virginia Raggi, candidata del caro leader Conte; non il gaffeur Michetti, pupillo di Giorgia Meloni, ma l'ex ministro dei governi del Pd, nonché candidato dal Pd (cui portò una valanga di voti nel Nordest) alle ultime Europee. È Calenda l'avversario più pericoloso e da delegittimare con l'accusa infamante: «È il vero candidato della destra», lanciata da Andrea Orlando e da Francesco Boccia e da Goffredo Bettini.
Assai meno dal prudente Roberto Gualtieri, conscio che se riuscirà ad andare lui al ballottaggio è proprio agli elettori di Calenda che dovrà rivolgersi per poter vincere, e che dunque riempirlo di insulti ora non è la strategia più furba.
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