La fuga dissennata di questi sette ragazzi sembra quasi un segno del destino. Le carceri italiane, da qualsiasi parte le guardi, sono una bestemmia contro i nostri valori. È un problema vecchio, che non si sa o non si vuole risolvere, per indifferenza, per cinismo, per viscere e paura, perché non porta voti. È un'idea malata di giustizia, che più di qualche volta colpisce a caso, senza garanzie e con la logica della punizione esemplare, ma improvvisata. È così che il «mondo di dentro», con carcerati e guardiani, marcisce nella quotidianità troppo affollata, con pochi soldi, senza prospettive, lasciato alla buona volontà dei singoli e con il suo rosario di suicidi e disperazione. La questione carceraria è il rumore di fondo della politica, un brusio, che non scuote la coscienza. Ora il carcere minorile della fuga ha un nome e un cognome. Ecco quindi l'incrocio casuale, ma che forse ci dice qualcosa. Cesare Beccaria è il padre del diritto penale occidentale. È lì che ci sono le nostre radici e non solo perché è il nonno materno di Alessandro Manzoni. La sua filosofia è la ricerca del difficile equilibrio, così attuale, tra libertà e sicurezza. Beccaria, lucido e illuminista, ti dice che la paura ti fa cadere nel lato oscuro e quando prende il sopravvento in una società scarnifica ogni cosa, ti disumanizza. È questo il punto di partenza di quel saggio che ha ispirato il sentimento della legge di ogni comunità che si sente libera. Il pamphlet, scritto nel 1764 su suggerimento di Pietro Verri, rivoluzionerà l'idea di giustizia. Il titolo è scarno e razionale: Dei delitti e delle pene. Il contenuto è uno schiaffo al potere assoluto, a qualsiasi regime, a chi sostiene la necessità di sottomettersi al Leviatano e a chi ti promette il paradiso e ti manda al rogo o alla ghigliottina per il tuo bene. Alla fine di tutto questo licenzia il boia. «Il fine delle pene non è tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali». Beccaria non si fida del potere e sa che la minaccia di punizioni tremende non serve a ridurre il crimine. Non è la disumanità della pena che rende la comunità più sicura. È la costanza e le certezza che fanno la differenza. Poche leggi, poche pene, ma certe.
Niente battaglie ideologiche sulla giustizia, nessuna bandiera politica da alzare e soprattutto nessuna vendetta. Nelle nostre scuole si studia il grande nipote. È un peccato che il nonno non abbia avuto lo stesso spazio.
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