Libia in fiamme, l'Italia paga la sua apatia

Guerriglia a Tripoli. Una milizia destabilizza il governo Serraj. Pericolo per Roma

Libia in fiamme, l'Italia paga la sua apatia

Tripoli brucia, ma Roma tace. Il silenzio e l'assenza d'iniziative italiane per metter fine agli scontri che infuriano nella zona Sud di Tripoli e hanno già causato una quarantina di morti (con un colpo di mortaio caduto ieri intorno alla nostra ambasciata) è allarmante. L'apparente apatia del nostro esecutivo contrasta infatti con le frenetiche attività in campo libico di una Francia diventata, per ammissione di Emmanuel Macron, il nostro principale nemico. Attribuire al presidente francese il ruolo di manovratore degli scontri di Tripoli guidati dalla Settima Brigata - una milizia proveniente da Tarhouna, 65 chilometri a Sud Est della capitale - sarebbe eccessivo. La milizia, del clan Kani, lotta innanzitutto per garantirsi un ruolo nella spartizione di denaro e prebende riconosciuto agli armati che gravitano intorno al governo del premier Fayez Al Serraj. Ma la destabilizzazione di quel governo è per noi assai pericolosa. Soprattutto mentre Parigi lavora per portare la Libia al voto il prossimo 10 dicembre.

Pensare di svolgere elezioni in un Paese diviso tra Tobruk, Tripoli e Misurata, con Fratelli Musulmani, milizie armate e cellule dell'Isis a far da ulteriori incomodi - è pura follia. Ma è la stessa follia che ha portato la Francia ad abbattere Gheddafi. Quindi Conte, Salvini, Di Maio e il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi farebbero meglio a preoccuparsi. L'intelligence francese probabilmente non ha contatti operativi con la Settima Brigata di Tarhouna, ma di certo lavora a Mellitah dove i gruppi vicine al generale Haftar minacciano il lavoro dello stabilimento dell'Eni da cui parte il gasdotto Greenstream. Il tutto mentre il governo di Tobruk dichiara «persona non grata» il nostro ambasciatore Giuseppe Perrone colpevole di aver criticato l'iniziativa elettorale di Parigi. E intanto la macchina da guerra francese si muove. L'ex ambasciatore libico negli Emirati Arabi Aref Al Nayed è già stato designato come candidato alla presidenza. Se il piano francese arrivasse a compimento Haftar e Macron potrebbero disfarsi del governo Serraj, perno dei rapporti con l'Italia, e scipparci gas e petrolio libico. E al disastro s'aggiungerebbe l'impossibilità di garantire il contenimento delle partenze dei migranti. Un contenimento assicurato oggi da una Guardia Costiera di Tripoli finanziata, addestrata ed equipaggiata dal nostro Paese.

I mezzi per contrastare Parigi, in verità, non ci mancano. Donald Trump ha riconosciuto all'Italia il ruolo di referente politico per la stabilizzazione dell'ex colonia e la conferenza di Sciacca del prossimo novembre, organizzata dall'Italia con la presenza del segretario agli esteri Usa Mike Pompeo e dell'omologo russo Sergej Lavrov, servirà proprio a indicare le tappe della nuova stabilizzazione. Ma se non fermeremo i francesi Sciacca diventerà una passerella inutile. Per riuscirci dobbiamo muoverci al meglio con gli altri alleati di Haftar, ovvero Russia ed Egitto. Salvini ha un'occasione dimostrare che i suoi rapporti con Mosca non sono solo di facciata. Milanesi deve invece far fruttare al meglio le tre visite in meno di 40 giorni di altrettanti ministri italiani (la sua, quella di Salvini e quella recentissima di Di Maio) al presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi. Visite importanti perché accompagnate, grazie all'Eni, dalla recente scoperta di un altro gigantesco giacimento di gas. Con il sostegno della Casa Bianca, la collaborazione del Cairo e una buona parola di Mosca, bloccare Haftar e la follia del voto del 10 dicembre non è impossibile.

Ma l'investitura di Trump o la benevolenza di Putin da sole non bastano.

Per contare bisogna esserci e farsi sentire quando gli eventi rischiano di travolgere un alleato. Per Tripoli messa a ferro e fuoco dagli scontri tra milizie urge un'iniziativa italiana. Altrimenti ci penseranno i «nemici» francesi.

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