La sinistra in versione green vede nella decrescita pro-ambiente un modo per far piangere i ricchi, ma a soffrire sarebbero molto di più i poveri. Nel dibattito sulla transizione energetica è emerso che noi europei pesiamo pochissimo e siamo già un sistema piuttosto sostenibile, nonostante i media compiacenti facciano un ottimo lavoro a tenerlo nascosto. I sacerdoti di Greta dovrebbero spostare i loro cortei a Pechino, ma non possono. Di conseguenza, hanno elaborato un'equazione. Visto che quei Paesi con elevate emissioni producono merci che noi importiamo, basta ridurre i nostri consumi per far diminuire quella CO2. Così, l'impatto devastante sull'economia della nostra inutile transizione energetica si trasformerebbe in un proficuo strumento per imporre agli altri di ridurre le emissioni, non comprando i loro prodotti. In effetti, il ragionamento non fa una piega. La sua implementazione invece ne fa e tante.
Innanzitutto, quando la domanda interna si riduce non diminuiscono solo le importazioni ma pure la produzione locale, perché la domanda interna non è regolabile come in un'economia socialista: ognuno consuma ciò che vuole; poi perché oggi i prodotti sono pieni di componenti che vengono da più Paesi; infine perché, anche nel caso dei prodotti importati, una volta entrati si attiva una catena distributiva locale che produce redditi.
Inoltre, se il commercio internazionale si chiama bilancia ci sarà un motivo. È fatto di reciprocità e se compri meno dei miei prodotti, anch'io farò altrettanto coi tuoi: meno produzione interna e meno lavoro.
In ultimo, l'equazione prevede che a ridurre i consumi siano i ricchi, che si concedono spese non essenziali. Nella realtà non è proprio così, in quanto i consumi voluttuari sono molto più trasversali alle fasce di reddito di quanto si immagini.
Il tutto si sintetizza in un tipico slogan ambientalista: la smettessero di cambiarsi il SUV ogni tre anni. Sorvolando sul fatto che se fosse una station wagon sarebbe diverso, il punto centrale è che il SUV potrà anche comprarlo il ricco, ma sono i poveri che li fabbricano, in Europa e di più nei Paesi emergenti. Comprarne meno significa meno lavoro e meno salari per economie che già fanno i salti per far emergere dalla povertà centinaia di milioni di persone.
Scavando e nemmeno tanto, sotto la fede green si scopre quella vecchia idea di tornare alla semplice vita francescana, con meno consumi e solo essenziali. Si scopre pure una visione dirigista dell'economia, che non ha mai digerito il fatto che la gente col proprio reddito possa comprare un nuovo paio di scarpe, anche se le altre ancora vanno bene. A sinistra pensano che la decrescita sarebbe felice e selettiva, colpendo solo alcuni consumi e alcune fasce sociali. Invece sarebbe infelice e indiscriminata, perché un'economia moderna è un sistema integrato. Quando l'economia cresce, i poveri stanno meglio ma i ricchi molto meglio. All'opposto quando l'economia va male, i ricchi stanno peggio ma i poveri molto peggio.
È il concetto che espresse la Thatcher nel 1990, a chi le contestava che la sua crescita avesse aumentato il benessere ma ampliato il divario sociale: «Pur di ridurre questo gap, preferireste che i poveri fossero più poveri a patto che i ricchi fossero meno ricchi». Nelle carestie, a morire prima non sono i pasciuti ma i più denutriti.
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