«Forti è caduto dalle nuvole, è stupito, affranto e smarrito». Delle accuse che gli lancia il compagno di cella «ha saputo dalla stampa». Così ieri sera l'avvocato Andrea Radice racconta il lungo incontro nella sala colloqui del carcere di Verona col suo assistito Chico Forti. Per l'ergastolano estradato dall'America sono ore delicate. Perchè la Procura di Verona sta indagando sulle incaute richieste che avrebbe fatto a un compagno di detenzione con legami 'ndranghetisti per «mettere a tacere» Marco Travaglio e Selvaggia Lucarelli, direttore e firma di punta del Fatto Quotidiano. La colpa dei due giornalisti: continuare a considerarlo colpevole, e avere accolto il suo rientro in Italia col titolo a prima pagina «Benvenuto assassino». Il progetto attribuito a Forti suscita indignazione trasversale: «Se fosse vero, avrebbe tradito la fiducia delle istituzioni», dice la presidente dell'Antimafia Chiara Colosimo.
Quando esce dal carcere, l'avvocato Radice spiega che però non è vero nulla: «Chico è amareggiato, come lo siamo tutti noi. Soprattutto, temiamo che questa vicenda davvero surreale possa minare il percorso che Chico stava per iniziare, per chiedere i benefici penitenziari. Sappiamo tutti come funziona no? Per infangare basta un secondo, per ripulire serve una vita». In ballo, dice il legale, c'è la credibilità di Forti «che ora qualcuno, per motivi che non abbiamo ben chiari, vorrebbe minare».
Il tema in gioco, come spiegato dal legale, non sono le conseguenze penali di quanto sarebbe accaduto, visto che di reati per ora non c'è traccia. A preoccupare è l'inciampo che l'episodio potrebbe costituire nel percorso dell'ex campione di windsurf verso la libertà. Forti ha voluto venire in Italia, dopo 24 anni di prigionia in America, per stare vicino alla famiglia ma anche per poter godere dei diritti dell'ordinamento penitenziario italiano. In base alle nostre norme, visto il periodo già trascorso in carcere, l'ergastolano avrebbe già la possibilità di accedere ai permessi premio e alla semilibertà.
Per riuscirci però serve un requisito essenziale: la buona condotta. E quella conversazione in carcere potrebbe convincere la magistratura di sorveglianza che il percorso di reinserimento di Forti, nonostante dal delitto che gli viene attribuito sia passato un quarto di secolo, è ancora incompleto. Che in qualche modo sia ancora pericoloso. Se fino all'altro ieri la libertà sembrava per Forti a portata di mano, quel pensiero malevolo riservato a due giornalisti potrebbe rinviarla a data da destinarsi.
Il procuratore di Verona Raffaele Tito ha inserito gli atti in un fascicolo del cosiddetto «modello 45», ovvero senza reati nè indagati. Gli accertamenti, fanno sapere ieri dalla Procura, sono in corso. «Ma io - dice Forti al suo legale - non ho mai chiesto niente a nessuno».
Aggiunge l'avvocato Radice: «Al di là di quello che mi ha detto Chico, io sono convinto che sia davvero poco credibile per chiunque pensare che un uomo come lui, con quello che ha passato, poche settimane dopo essere riuscito a tornare in Italia e con davanti la possibilità di poter avere un futuro fuori da un carcere dopo più di ventiquattro anni, decida di rivolgersi a un altro detenuto per contattare la malavita organizzata. E per che cosa poi? Per il fastidio provato a seguito di alcuni titoli di giornale? Penso possa essere evidente a tutti che una storia del genere fatica a stare in piedi».
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