L'infinita latitanza del padrino sanguinario che amava la bella vita

"Mi chiamo Matteo Messina Denaro". La primula rossa non può più nascondersi

L'infinita latitanza del padrino sanguinario che amava la bella vita

«Mi chiamo Matteo Messina Denaro». La primula rossa non può più nascondersi. Dopo 30 anni di latitanza, la clinica «La Maddalena» di Palermo, in cui si trova, pullula di carabinieri ed è circondata. Occhiali scuri, cappellino di lana, giubbotto e jeans beige, si avvia silenzioso scortato da due carabinieri nel furgone dei militari dell'Arma. È lui, U siccu' (il magro). È lui, il super latitante tra i più ricercati al mondo. Per mari e monti.

Chi sosteneva che si spostasse di continuo in Sicilia, protetto dai fedelissimi, chi, invece, che si fosse trasferito all'estero. C'era chi supponeva che avesse effettuato interventi al viso e ai polpastrelli per non farsi riconoscere e acciuffare. Nel settembre 2021 circolò notizia del suo arresto a L'Aja, nei Paesi Bassi, a seguito di un blitz delle forze speciali olandesi, ma fu uno scambio di persona.

Messina Denaro è stato arrestato ieri a Palermo, non lontano dalla sua Castelvetrano. Fiaccato da un tumore, «Diabolik» (un altro dei suoi soprannomi) da almeno un anno fa i conti con la vita, lui che con la vita degli altri è stato spietato tanto da vantare con un amico di aver compiuto omicidi da poter «fare un cimitero». Figlio di Francesco detto Ciccio, mafioso morto in latitanza, da lui ereditò il comando nel territorio di Trapani, per poi riuscire ad estendere il potere su tutta la Sicilia. La sua presenza costante al fianco di figure di spicco della mafia, Totò Riina prima e Bernardo Provenzano poi, testimonia il ruolo preminente rivestito in Cosa nostra.

Lui, uomo d'azione, è l'autore di stragi passate alla storia, pagine tra le più fosche vissute nell'ultimo trentennio come quelle in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e le scorte, e gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma. Ma Messina Denaro è stato anche di più. Per il suo fiuto per gli affari. Tanto da mettere le mani in pasta in più settori, dalla droga ai finanziamenti pubblici, dal commercio alle energie rinnovabili, come l'eolico e il fotovoltaico, accumulando un tesoro tra miliardi di euro e beni immobili, si cercano almeno 13 milioni direttamente ascrivibili al padrino. Il tutto grazie alla presenza di prestanome, da imprenditori e persino esponenti delle istituzioni, che non gli hanno mai fatto mancare il loro appoggio. I fedelissimi lo hanno coperto sempre, garantendogli una latitanza sicura, e ciò malgrado i diversi colpi inflitti alla sua cerchia da parte dello Stato.

I gregari lo temevano e lo stimavano, tanto da affibbiargli il soprannome di 'U bene (il bene, che dà idea della devozione nei suoi confronti). I pizzini continuavano a girare per veicolare il suo volere. La primula rossa, infatti, ha continuato a impartire ordini gestendo gli affari e riformulando la gerarchia della Cupola dopo gli ultimi blitz messi a segno dai carabinieri.

Era l'estate del 1993 quando si diede alla macchia. «Sentirai parlare di me. Mi dipingeranno come un diavolo» scriveva alla fidanzata dell'epoca. E un demone lo è stato davvero. Tra i più sanguinari. Basti pensare al rapimento, il 14 novembre 1993, del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso l'11 gennaio 1996. Il bambino, di soli 12 anni, fu strangolato e sciolto nell'acido, «colpevole» di essere il figlio del pentito Santino. Doveva servire da monito ai collaboratori di giustizia che aprivano bocca sulle stragi di Falcone e Borsellino.

Messina Denaro in quell'occasione era in«buona» compagnia con Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca.

Fu persino capace di uccidere un albergatore di Selinunte che era invaghito della sua fidanzata austriaca che lavorava in albergo. 'U signurinu (il signorino, nel senso dell'eleganza) era amante della bella vita: donne, vestiti, auto sportive e vacanze. L'ultima però sarà in cella, dove dovrà scontare gli ergastoli che ha accumulato.

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